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Diritto allo studio

L’ATTRIBUZIONE DEL PROF DI SOSTEGNO ARRIVA DALLA CERTIFICAZIONE DI DISABILITA’

La normativa che tutela il diritto all’educazione e all’istruzione delle persone handicappate si propone come finalità l’integrazione nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, attraverso lo sviluppo delle potenzialità della persona nell'apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione, secondo l’idea che l'esercizio del diritto all'educazione e all'istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all'handicap.
La realizzazione del dritto allo studio fa obbligo allo Stato di predisporre adeguate misure di sostegno, alle quali concorrono a livello territoriale anche gli Enti Locali e il Servizio Sanitario Nazionale. Tale impegno collettivo ha lo scopo di predisporre le condizioni per la piena partecipazione della persona con disabilità alla vita sociale, eliminando tutti i possibili ostacoli e le barriere, fisiche e culturali.
ll MIUR mette in atto varie misure di accompagnamento per favorire l'integrazione: docenti di sostegno, finanziamento di progetti e attività per l'integrazione, iniziative di formazione del personale docente di sostegno e curriculare nonché del personale ata.
Presupposto per l’attribuzione all’alunno con disabilità delle misure di sostegno e di integrazione è la certificazione di disabilità da parte di un organismo collegiale appartenente al Servizio Sanitario Nazionale.
Nello specifico, all'individuazione dell'alunno come persona handicappata ed all'acquisizione della documentazione risultante dalla diagnosi funzionale, fa seguito un profilo dinamico-funzionale (PDF) ai fini della formulazione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), elaborato dal dirigente della scuola, dai docenti interessati, dai genitori e dal personale sanitario, che determina il percorso formativo dell’alunno con disabilità e garantisce un intervento adeguato allo sviluppo delle sue potenzialità.
Il profilo indica le caratteristiche fisiche, psichiche e sociali ed affettive dell'alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona handicappata. Alla elaborazione del profilo dinamico-funzionale iniziale seguono, con il concorso degli operatori delle unità sanitarie locali, della scuola e delle famiglie, verifiche per controllare gli effetti dei diversi interventi e l'influenza esercitata dall'ambiente scolastico.
Dunque Diagnosi Funzione (DF), il Profilo Dinamico Funzionale (PDF) e il Piano Educativo Individualizzato (PEI) sono gli strumenti necessari alla effettiva integrazione degli alunni con disabilità. Tali documenti, redatti in collaborazione con il Servizio Sanitario Nazionale, hanno lo scopo di riscontrare le potenzialità dell’alunno e sulla base di queste costruire appositi programmi di autonomia, di socializzazione e di apprendimento.
L’alunno con disabilità è assegnato alla classe comune; la responsabilità educativa viene perciò assunta dal Consiglio di Classe, di cui fa parte il docente per le attività di sostegno. Quest’ultima è una figura professionale definita come insegnante “specialista”, fornito di formazione specifica, che, insieme ai docenti curricolari, sulla base del Piano Educativo Individualizzato, definisce le modalità di integrazione dei singoli alunni con disabilità, partecipandovi attivamente. L’insegnante per le attività di sostegno viene richiesto all’Ufficio Scolastico Regionale dal dirigente scolastico sulla base delle iscrizioni degli alunni con disabilità; la quantificazione delle ore per ogni alunno viene individuata tenendo conto della Diagnosi Funzionale, del Profilo Dinamico Funzionale e del conseguente Piano Educativo Individualizzato, nel rispetto del nuovo parametro che, a livello nazionale, non può superare il rapporto medio di un insegnante ogni due alunni con disabilità.
I docenti di sostegno, contitolari della classe, partecipino alla valutazione di tutti gli alunni. Inoltre, qualora un alunno con disabilità sia affidato a più docenti del sostegno, essi si esprimono con un unico voto.
L’individualizzazione del percorso didattico ed educativo previsto dal PEI per l’alunno con disabilità può influire sui metodi di valutazione e limitare il valore legale del titolo di studio conseguito, in particolare, al termine del secondo ciclo di istruzione. Infatti, secondo le norme vigenti, in sede di esame conclusivo del primo ciclo di istruzione le prove sono adattate in relazione agli obiettivi del PEI. Le prove differenziate hanno valore equivalente a quelle ordinarie ai fini del superamento dell’esame e del conseguimento del diploma di licenza. Nel caso in cui gli obiettivi previsti dal PEI non siano riconducibili ai programmi ministeriali, il percorso formativo consente l’acquisizione di un attestato di credito formativo valido anche per l’accesso ai percorsi integrati di istruzione e formazione.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 17 del 14 - 27 ottobre 2011

 

Commento giurisprudenziale

RIDURRE IL SOSTEGNO E’ DANNO ESISTENZIALE
(Il Tar Sardegna ha deciso che è una lesione del diritto all’istruzione e partecipazione)

E’ illegittimo ridurre le ore di sostegno all’alunno portatore di handicap, e per l’effetto il minore ha anche diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, qualificabile come danno esistenziale, in presenza di lesioni ai valori della persona umana protetti dalla carta costituzionale. Il danno è individuabile negli effetti che la diminuzione delle ore di sostegno ha provocato sulla personalità del minore, privato del supporto necessario a garantire la piena promozione dei bisogni di cura, di istruzione e di partecipazione. Così decide il TAR Sardegna – Cagliari Sezione I, con Sentenza 17 giugno 2011, n. 616.
Fatto e emotivi della decisione
Ad un alunno portatore di handicap in situazione di gravità veniva assegnato un numero di ore di sostegno settimanali inferiore a quelle richieste e insufficienti. Perciò veniva proposto ricorso al TAR per l’accertamento del diritto del minore alle ore di sostegno dominate, nonché quello al risarcimento dei danni patiti.
Il giudice accertava previamente l’illegittimità del provvedimento di attribuzione di ore di sostegno in misura ridotta, seguendo un consolidato indirizzo di giurisprudenza (cfr. TAR Sardegna, I Sez., 30/10/2010 n. 2456 e 11/11/2010 n. 2571).
Detto orientamento a sua volta richiama le argomentazioni individuabili nella sentenza della Corte Costituzionale 26 febbraio 2010 n. 80, e in particolare la conclusione secondo cui occorre rispettare un nucleo fondamentale di garanzie previste dalla costituzione e dalle leggi.
Ha rammentato il giudice costituzionale che, sotto il profilo normativo, il diritto all’istruzione del disabile è oggetto di specifica tutela sia da parte dell’ordinamento internazionale, che di quello interno.
E’ sufficiente, sul versante degli obblighi internazionali, rammentare che la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità statuisce che gli Stati “riconoscono il diritto delle persone con disabilità all’istruzione”. Diritto, specifica la Convenzione, che deve essere garantito anche attraverso la predisposizione di accomodamenti ragionevoli al fine di “andare incontro alle esigenze individuali” del disabile.
Più stringente l’Ordinamento interno. In attuazione dell’art. 38 Cost., il diritto all’istruzione dei disabili ed alla loro integrazione scolastica è previsto dalla L. 104/2992, che riconosce che la partecipazione del disabile al processo educativo può contribuire in modo decisivo a stimolare la potenzialità dello svantaggiato.
Se si tiene in giusto conto il testo dell’art. 38. (“Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avanzamento professionale”), il diritto del disabile all’istruzione si configura come un “diritto fondamentale”; che va assicurato mediante “misure di integrazione e sostegno idonee a garantire ai portatori di handicap la frequenza degli istituti di istruzione” (sent. Corte Cost. n. 219/1987 cit.). Il che costituisce obbligo ugualmente fondamentale per lo Stato giusta la previsione dello stesso art. 38 Cost. secondo cui “Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.
Rammenta ancora la Corte Costituzionale (sent. n. 52 del 2000) che fra le misure previste dal Legislatore viene in rilievo quella del personale docente specializzato, chiamato ad adempiere alle “ineliminabili forme di integrazione e di sostegno” a favore degli alunni diversamente abili. In particolare, per i disabili in condizione di gravità, la l. 449/1997 ha previsto la possibilità di assumere, con contratto a tempo determinato, insegnanti di sostegno in deroga al rapporto alunni – docenti, me secondo il principio delle “effettive esigenze rilevate”.
Alla luce di quanto precede deve essere affermato il principio secondo cui non può in ogni caso costituire impedimento alla assegnazione, in favore dell’allievo disabile, delle ore di sostegno necessarie a realizzare il proprio diritto, il vincolo di un’apposita dotazione organica di docenti specializzati di sostegno, giacché la legge assicura comunque l’integrazione scolastica degli alunni handicappati con interventi adeguati al tipo e alla gravità dell’handicap, compreso il ricorso alla assunzione con contratto a tempo indeterminato di insegnanti di sostegno in deroga al rapporto docenti – alunni in presenza di handicap particolarmente gravi, consentendo così di garantire all’alunno bisognevole, l’integrazione scolastica attraverso il miglioramento delle sue possibilità nell’apprendere, comunicare e socializzare (TAR Napoli, Sez. IV, 24 maggio 2010 n. 8328)".
Quanto alla colpa dell’amministrazione nel disporre la decurtazione delle ore di sostegno, è sufficiente rilevare che la determinazione è intervenuta successivamente agli interventi della Corte Costituzionale che affermavano l’intangibilità e la prevalenza dei diritti del minore portatore di handicap, rispetto all’applicazione di pretesi vincoli di dotazione organica di docenti specializzati per il sostegno, destinati a soccombere al fine di garantire all’alunno un’istruzione e una partecipazione adeguate ed efficaci.
Ciò precisato in ordine all’illegittimità dell’impugnato provvedimento e alla colpa nell’emanarlo, il TAR ritiene di seguire, ai fini risarcitori, l’orientamento che riconosce il diritto al ristoro del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., qualificabile nella fattispecie come danno esistenziale, in presenza di lesioni ai valori della persona umana garantiti o protetti dalla carta costituzionale (Corte Cass., sez. III 30 aprile 2009 n. 10120 e sez I 19 maggio 2010 n. 12318), ovvero ai diritti costituzionalmente inviolabili (Corte Cass. SS.UU. 19 agosto 2009 n. 18356).
Il danno è individuabile negli effetti che la diminuzione delle ore di sostegno subita ha provocato sulla personalità del minore, privato del supporto necessario a garantire la piena promozione dei bisogni di cura, di istruzione e di partecipazione a fasi di vita “normale”, e può essere quantificato, in via equitativa, tenendo conto del periodo di carenza del pieno sostegno, nonché del numero differenziale delle ore di sostegno illegittimamente negate.

Anna Nardone
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 14 del 2 - 15 settembre 2011

 

OBBLIGO ASSOLTO ANCHE IN CASA
(La scelta dell’istruzione parentale garantita dalla Costituzione)

L’obbligo di iscrizione e di frequenza della scuola primaria, della scuola secondaria di primo grado, e dei primi due anni degli istituti d’istruzione secondaria di secondo grado o dei percorsi di istruzione e formazione professionale, può essere assolto non solo nelle scuole statali e paritarie, ma anche attraverso l’istruzione familiare, in ossequio al principio costituzionale di libertà d’istruzione (cfr. art. 33 Cost.).
Si tratta una forma di istruzione alternativa a quella pubblica e paritaria, regolamentata da disposizioni normativi (v. d.lgs. 2005 76/2005; CM 101/2010; nota 781/2011).
Coloro che intendano provvedere in proprio alla istruzione dei minori soggetti all’obbligo devono rilasciare, al dirigente della scuola del territorio di residenza, apposita dichiarazione – da rinnovare anno per anno - di possedere “la capacità tecnica ed economica” per provvedervi. Il dirigente medesimo ha l’onere di accertare la fondatezza di tale dichiarazione.
In base alle disposizioni vigenti, l’istruzione parentale costituisca modalità di assolvimento dell’obbligo di istruzione alternativa alla frequenza dei primi due anni degli istituti d’istruzione secondaria di secondo grado o alla frequenza dei percorsi di istruzione e formazione professionale finalizzati al conseguimento di una qualifica. Com’è noto, per effetto della norma che ha disposto l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, gli studenti che concludono con esito positivo il percorso del primo ciclo, devono iscriversi alla classe prima di un istituto secondario di secondo grado; l’obbligo di istruzione può essere assolto anche nei percorsi di istruzione e formazione professionale.
Infatti, una interpretazione logico sistematica della normativa porta a concludere che l’educazione parentale si riferisca a tutta la fascia dell’obbligo di istruzione e deve tendere, come le altre modalità di adempimento dell’obbligo, al conseguimento del titolo di studio conclusivo del primo ciclo e all’acquisizione dei saperi e delle competenze relativi ai primi due anni di istruzione secondaria superiore.
Mentre coloro che frequentano una scuola non statale e non paritaria hanno l’obbligo di sottoporsi ad esame di idoneità nel caso in cui intendano iscriversi a scuole statali o paritarie, nonché, in ogni caso, al termine della scuola primaria per il passaggio alla scuola secondaria di primo grado, coloro che si avvalgono dell’istruzione parentale, a garanzia dell’assolvimento del dovere all’istruzione, sono tenuti a sostenere, ogni anno, l’esame di idoneità. Inoltre, tutti gli obbligati sono tenuti a sostenere l’esame di Stato a conclusione del primo ciclo di istruzione.
Il rischio di mancato assolvimento dell’obbligo di istruzione a partire dalla scuola del primo ciclo è oggi motivo di particolare preoccupazione in dipendenza dei nuovi fenomeni emergenti legati ai processi di immigrazione, allo sfruttamento del lavoro minorile e alle nuove povertà. Ciò rende necessaria una vigilanza attenta e continua sulla condizione giovanile, anche con riguardo al corretto svolgimento dell’istruzione familiare e alla effettiva frequenza di scuole non statali e non paritarie.
In particolare, gli Uffici scolastici regionali - in sinergia con le Regioni e gli Enti locali - adottano le misure necessarie per la prevenzione e il contrasto della dispersione scolastica, ponendo attenzione soprattutto ai territori maggiormente a rischio ed alle fasce di utenza che presentano maggiori criticità.
I dirigenti scolastici, in particolare degli istituti di istruzione secondaria di primo grado, effettuano le necessarie verifiche, rilevano i casi e le ragioni di inosservanza, attivano tutte le iniziative e le misure che dovessero rendersi necessarie, ivi comprese le segnalazioni alle autorità competenti.
Lo sviluppo e la messa a punto dell’anagrafe nazionale degli studenti, di cui al decreto ministeriale n. 74 del 5 agosto 2010, costituiscono una base importante per una rinnovata azione di monitoraggio e controllo dell’obbligo di istruzione, anche per quanto si riferisce al primo ciclo.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 10 del 13 - 26 maggio 2011

 

 DIRITTO AL SUCCESSO SCOLASTICO
(Solo di recente la normativa per favorire chi è effetto da dislessia)

Solo di recente ll legislatore ha ricociuto al diritto all’istruzione degli alunni affetti da disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) una speciale disciplina garantistica (l.170/2010), finalizzata a favorire il successo scolastico, anche attraverso misure didattiche di supporto; assicurare una formazione adeguata e promuovere lo sviluppo delle potenzialità; ridurre i disagi relazionali ed emozionali; adottare forme di verifica e di valutazione adeguate; preparare gli insegnanti e sensibilizzare i genitori; favorire la diagnosi precoce e percorsi didattici riabilitativi; incrementare la comunicazione e la collaborazione tra famiglia, scuola e servizi sanitari; assicurare eguali opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale.
Anche in questo caso, il presupposto per l’attuazione degli interventi di tutela è la diagnosi dei DSA (dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia), effettuata dagli specialisti del Servizio sanitario nazionale ed è comunicata dalla famiglia alla scuola di appartenenza dello studente.
Le Istituzioni scolastiche provvedono ad attuare i necessari interventi pedagogico-didattici per il successo formativo degli studenti con DSA, attivando percorsi di didattica individualizzata e personalizzata – anche attraverso un Piano Didattico Personalizzato -, e ricorrendo a strumenti compensativi e misure dispensative.
I percorsi didattici individualizzati e personalizzati si prefiggono obiettivi compresi comunque all’interno delle indicazioni curricolari nazionali, sulla base del livello e delle modalità di apprendimento dell’alunno, adottando proposte di insegnamento che tengano conto delle abilità possedute e potenzino le funzioni non coinvolte nel disturbo.
Le scuole assicurano l’impiego degli opportuni strumenti compensativi – escluso per ora il ricorso a docenti di sostegno - finalizzato ad evitare situazioni di affaticamento e di disagio, senza peraltro ridurre il livello degli obiettivi di apprendimento previsti nei percorsi didattici individualizzati e personalizzati.
La valutazione scolastica, periodica e finale, degli alunni con DSA deve essere coerente con gli interventi pedagogico-didattici attivati. Le Istituzioni scolastiche adottano modalità valutative che consentono allo studente di dimostrare effettivamente il livello di apprendimento raggiunto, mediante l’applicazione di misure che determinino le condizioni ottimali per l’espletamento della prestazione da valutare - relativamente ai tempi di effettuazione e alle modalità di strutturazione delle prove - riservando particolare attenzione alla padronanza dei contenuti disciplinari, a prescindere dalle forme.
Le Commissioni degli esami di Stato – tenendo conto delle specifiche situazioni soggettive, delle modalità didattiche e delle forme di valutazione adottate, sulla base del disturbo specifico - possono riservare ai candidati tempi più lunghi di quelli ordinari. Le medesime Commissioni assicurano, altresì, l’utilizzazione di idonei strumenti compensativi e adottano criteri valutativi attenti soprattutto ai contenuti piuttosto che alla forma, sia nelle prove scritte, sia in fase di colloquio. Si possono poi dispensare alunni e studenti dalle prestazioni scritte in lingua straniera in corso d’anno scolastico e in sede di esami di Stato, nel caso di certificazione di DSA attestante la gravità del disturbo e recante esplicita richiesta di dispensa dalle prove scritte.
I candidati con disturbi dell’apprendimento che superano l’esame di Stato conseguono il titolo legalmente valido per l’iscrizione alla scuola secondaria di secondo grado ovvero all’università. Solo in casi di particolari gravità del disturbo di apprendimento, l’alunno che abbia seguito un percorso didattico differenziato e sia stato valutato dal consiglio di classe con l’attribuzione di voti e di un credito scolastico relativi unicamente allo svolgimento di tale piano, possono sostenere prove d’esame di Stato differenziate, coerenti con il percorso svolto, finalizzate solo al rilascio di una attestazione.
 

Domenico Barboni

(Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 17 del 14 - 27 ottobre 2011)

 

Commento giurisprudenziale

AI GENITORI FACOLTA’ DI SCELTA SU SCUOLA E TEMPO ORARIO
(Alunna inclusa e poi esclusa dalla lista full time. I giudici hanno accolto il ricorso e deciso il reintegro)

I genitori dell’alunno hanno un interesse meritevole di tutela giuridica alla scelta, all’interno della medesima istituzione scolastica comprensiva, della scuola presso la quale iscrivere il proprio figlio, specie allorché la diversa articolazione didattica giustifica la preferenza per l’una piuttosto che per l’altra scuola, e così per la modalità, a tempo pieno ovvero per quella a tempo modulare.
Questa la decisione del Consiglio di Stato, pronunciata in accogliendo delle ragioni dei genitori ricorrenti (cfr. sentenza 24.9.2010 n. 7125).
La vicenda
I genitori presentavano domanda di iscrizione alla classe prima elementare della figlia, esprimendo la preferenza per un scuola elementare a tempo pieno nell’ambito di un istituto comprensivo del quale facevano parte un’altra scuola elementare, due scuole materne ed una scuola media. Il consiglio di istituto dapprima approvava una graduatoria nella quale la figlia dei ricorrenti risultava utilmente collocata tra gli ammessi al tempo pieno; quindi, a seguito di un riesame delle domande di iscrizione, veniva predisposta una nuova graduatoria. Questa volta la figlia dei ricorrenti veniva esclusa dalla scuola a tempo pieno. I genitori impugnavano l’esito del secondo esame delle domande, ritenuto illegittimo perché assunto in violazione dei principi generali in tema di adozione dei provvedimenti di autotutela. Il Consiglio di Stato – chiamato a decidere in modo definitivo sulla vicenda – ha accolto le loro ragioni.
Motivi della decisione
Il giudice dapprima chiarisce la sussistenza di uno specifico interesse dei genitori ricorrenti all’impugnativa della seconda graduatoria, all’esito della quale la figlia veniva iscritta con modalità diverse da quelle espresse come preferenza, a nulla valendo – in contrario – l’accettazione da parte dei genitori di una utilità meno soddisfacente, quale l’iscrizione al tempo ‘modulo’. Si osserva al riguardo che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale l'acquiescenza, intesa come accettazione espressa o tacita del provvedimento amministrativo lesivo si configura solo in presenza di una condotta da parte dell'avente titolo all'impugnazione che sia libera e inequivocabile. In quanto incide sul fondamentale diritto di agire in giudizio, l'accertamento in ordine all'avvenuta accettazione del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo deve essere accurato ed esauriente e svolgersi su tutti i dati di fatto, da cui deve risultare senza alcuna incertezza la presenza di una chiara intenzione definitiva di non rimettere in discussione l'atto dannoso (sul punto, tra le tante, si veda Cons. Stato, Sez. IV, sent. 31 luglio 2009, n. 4854).
Riconducendo il principio in questione alle peculiarità del caso di cui trattasi, osserva il Consiglio di Stato che la scelta dei genitori di non rifiutare gli effetti di atti per loro meno soddisfacenti (si tratta della seconda graduatoria che aveva determinato l’iscrizione della figlia al tempo ‘modulo’) non potesse in alcun modo equivalere ad una definitiva ed incondizionata accettazione dei relativi effetti ed alla conseguente impossibilità di impugnarli in seguito. Infatti, si consideri che la mancata adesione quanto meno all’iscrizione in parola li avrebbe verosimilmente esposti al rischio di dover accettare un’iscrizione ancora meno favorevole (ad es.: presso un diverso istituto scolastico), o – addirittura – la stessa perdita della possibilità di conseguire l’iscrizione presso la scuola elementare cui l’istanza originaria era rivolta.
Del resto, l’esame degli atti di causa mostra che i genitori della minore non ritenessero in alcun modo che l’opzione loro offerta rappresentasse, allo stato dei fatti, la migliore possibile (con definitiva perdita della possibilità di reclamare anche in sede giudiziale il conseguimento di una soluzione migliore), se solo si consideri che, al momento stesso in cui i genitori dichiaravano di non rifiutare l’iscrizione al tempo ‘modulo’, chiedevano altresì – ove possibile - l’iscrizione al tempo pieno.
Il giudice sottolinea poi, più nel dettaglio, la piena sussistenza dell’interesse dei ricorrenti all’iscrizione all’uno piuttosto che all’altra scuola nell’ambito della medesima istituzione scolastica. Sotto tale aspetto, il Consiglio di Stato ritiene che sia la stessa articolazione didattica dell’istituzione scolastica comprensiva a giustificare il carattere differenziato e giuridicamente apprezzabile dell’interesse all’iscrizione all’una piuttosto che all’altra scuola, ovvero secondo l’una piuttosto che l’altra modalità di insegnamento - a tempo pieno ovvero a tempo modulo.
Infine osserva che i provvedimenti impugnati di riesame della valutazione delle domande di iscrizione risultano certamente compresi nella categoria dell’autotutela dell’amministrazione, e perciò illegittimi per la mancata puntuale esplicazione delle ragioni di pubblico interesse idonee a supportare l’esercizio dell’autotutela stessa (non risultando sufficiente sotto tale profilo il solo interesse al ripristino della legittimità violata), nonché per il mancato rispetto delle regole del contraddittorio nel relativo procedimento. Si osserva al riguardo che, in base a consolidati principi, ciascuno dei due profili dinanzi richiamati risulta idoneo a supportare in modo autonomo una pronuncia di annullamento degli atti impugnati, né la scuola aveva espresso alcun argomento in relazione alla assenza di puntuali indicazioni in ordine alla mancata esplicazione delle ragioni di interesse pubblico che giustificano l’esercizio del potere di autotutela, e neppure ai motivi volti a sostenere la legittimità della mancata comunicazione di avvio del procedimento di autotutela. E’ innegabile che l’avvio del procedimento di autotutela fosse riferibile unicamente agli organi scolastici, al fine di garantire l’adeguata partecipazione dei soggetti interessati.
Per tutti questi motivi il Collegio ritiene di confermare l’annullamento degli atti terminati con l’approvazione della seconda graduatoria, con conseguente “ripescaggio” degli atti di approvazione della prima graduatoria, nella quale la figlia dei ricorrenti risultava inscritta con il tempo pieno.

Anna Nardone
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 22 del 24 dicembre 2010 - 6 gennaio 2011

 

QUOTA STRANIERI AL DEBUTTO
(Al via il tetto del trenta per cento degli studenti non italiani per classe)

Tra le novità di quest’anno scolastico vi è anche l’esordio della norma che prevede un tetto del 30% di alunni non italiani in ogni classe, introdotto con la circolare ministeriale n. 2 del gennaio 2010. E – stando ai primi dati - l’applicazione del limite normativo pare essere stata oculata in tutte le Regione.
La norma trae fondamento da disposizioni precedenti, che già fissavano una soglia massima del 50% per le presenze di alunni non italiani in classe (cfr. art. 45 comma 3 del DPR del 31 agosto 1999). La finalità di quel limite – così come di quello fissato ora dal Ministro Gelmini – è quella, ragionevole, di evitare la creazione di classi ghetto.
In particolare, la CM 2/2010 stabilisce che il numero degli alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe non potrà superare di norma il 30% del totale degli iscritti, quale esito di una equilibrata distribuzione degli allievi con cittadinanza non italiana tra istituti che insistono sullo stesso territorio; che detto limite entra in vigore dall’anno scolastico 2010/2011 in modo graduale, introdotto a partire dal primo anno della scuola dell’infanzia e dalle classi prime sia della scuola primaria, sia della scuola secondaria di I e di II grado; che il limite è elastico, e può essere innalzato - con determinazione del Direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale - a fronte della presenza di alunni stranieri (come può frequentemente accadere nel caso di quelli nati in Italia) già in possesso delle adeguate competenze linguistiche; e può di contro venire ridotto, sempre con determinazione del Direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale, a fronte della presenza di alunni stranieri per i quali risulti all’atto dell’iscrizione una padronanza della lingua italiana ancora inadeguata a una compiuta partecipazione all’attività didattica e comunque a fronte di particolari e documentate complessità. La concreta applicazione del tetto del 30% da parte delle amministrazioni scolastiche territoriali deve comunque avere sempre come obiettivo il raggiungimento del successo formativo per tutti, nel rispetto del principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 della Costituzione. Ed è perciò che la circolare si limita a fornire Indicazioni e raccomandazioni.
Da un primissimo e sommario bilancio – a parte la guerra delle cifre, in cui c’è chi sostiene che il numero di nuovi alunni stranieri è in costante aumento, e chi al contrario proclama che la spinta all'aumento degli alunni stranieri nella scuola italiana continua a diminuire di intensità, probabilmente per effetto della crisi economica – l’applicazione del tetto normativo pare essere stata assennata in tutte le Regioni, anche in quelle (come Lombardia e Veneto) che si erano rivelate più favorevoli ad una applicazione inflessibile della soglia. Di fatto, come peraltro suggerito dalla stessa circolare, si è cercato piuttosto di formare classi equilibrate, anche oltre la soglia in parola, soprattutto nelle zone a più alta densità di immigrati, avendo come obiettivo le esigenze dell’apprendimento, ricorrendo alle richieste di deroga agli uffici scolastici, che si sono dimostrati molto ragionevoli nel concederle. Secondo i dati del Ministero, il 3% delle classi ha derogato alla soglia del 30% di alunni stranieri iscritti.
Non sono però mancate le polemiche e le critiche alla disposizione che fissa la soglia del 30%, sfociate anche in iniziative giudiziarie, soprattutto appena la medesima circolare è stata emanata – perché poi, come ricordato, l’applicazione pratica si è dimostrata molto coerente rispetto agli obiettivi dell’istruzione, ed oculata, e in nessun caso la soglia indicata nella circolare è stata applicata in modo inesorabile.
In particolare, si obietta che il tetto del 30% delle presenze straniere nelle classi non aiuterebbe l’integrazione, ma renderebbe più difficile per gli alunni stranieri partecipare alla vita scolastica, perché superata quella soglia i medesimi sono trasferiti altrove. La circolare poi prevaricherebbe completamente l’autonomia dei singoli consigli di istituto nell’organizzare le classi; creerebbe discriminazioni ai danni degli alunni stranieri, sulla base delle normative comunitaria e italiana. Si rileva che se è condivisibile l’opportunità che la presenza di alunni con problemi di conoscenza della lingua sia armonicamente distribuita su tutte le classi, questo obiettivo non si raggiunge creando regole di iscrizione differenziate basate solo sulla cittadinanza e non su un esame effettivo delle esigenze del singolo studente. ll criterio scelto dal governo non solo apparirebbe irrazionale, ma anche contro la legge: il regolamento attuativo del Testo unico sull’immigrazione prevede infatti che “le iscrizioni dei minori stranieri avvengano nei modi e alle condizioni previsti per i minori italiani”. Infine si lamenta che la pubblica autorità, invece di curare il risultato concreto, prevedendo effettivi interventi di sostegno della didattica ove vi sono problemi linguistici o di interculturalità, pretenda ancora una volta di utilizzare la cittadinanza come una spada che divide anziché come un sottile filo di collegamento solidale.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 16 dell’1 - 14 ottobre 2010

 

MA E’ POSSIBILE VARIARE IL LIMITE
(L’Ufficio Scolastico regionale può aumentarlo o diminuirlo)

La circolare del Ministero dell’Istruzione n. 2/2010, avente ad oggetto Indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana, propone interventi e misure volte a garantire un equilibrato assetto della nuova realtà scolastica, ed effettive condizioni di parità e di fruizione del diritto allo studio, specie con riferimento all’orientamento dei flussi delle iscrizioni, e all’equilibrata ripartizione degli alunni tra le classi. Tra questi interventi spicca la previsione di un numero di alunni con cittadinanza non italiana non superiore al 30% del totale degli iscritti.
La norme prende le mossa dalla considerazione che la presenza nelle scuole di alunni di diversa provenienza sociale, culturale, etnica e con differenti capacità ed esperienze di apprendimento costituisce ormai un dato strutturale in continuo aumento, tanto da interessare l’intero sistema di istruzione. Ciò impone il superamento di modelli educativi e formativi tradizionali e l’adozione di metodologie adeguate alle nuove e diverse esigenze.
Nell’ambito dell’ampio scenario sopra evidenziato, particolare attenzione è rivolta alla inclusione ed alla integrazione degli alunni stranieri, al fine di predisporre, nei loro confronti, condizioni paritarie che possano prevenire le situazioni di disagio e di difficoltà. Al riguardo, è indubitabile che la conoscenza e la pratica della lingua italiana rappresentano non solo una base sicura per il successo scolastico, ma anche uno degli strumenti indispensabili per costruire una armoniosa coesione sociale. L’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, in fase di avvio, offre a tutti gli studenti le necessarie opportunità per conoscere, apprezzare e condividere le regole fondamentali della convivenza e comprendere a fondo i principi della legalità e della democrazia.
In preparazione dell’anno scolastico 2010-2011, in cui tra l’altro prendono l’avvio significative modifiche di ordinamento, è stata considerata con particolare cura una inclusione di alunni stranieri equilibrata ed efficace in grado di favorire uno sviluppo positivo del processo di insegnamento-apprendimento sia per l’istituzione scolastica nel suo complesso, sia per tutti i suoi singoli alunni e studenti.
È indispensabile, infatti, garantire il diritto all’istruzione non solo in termini di accesso ai percorsi scolastici, ma anche sotto il profilo degli esiti da raggiungere, a prescindere dalle diversità linguistica e culturale. A tal fine si ricorda l’importanza della frequenza del tempo scuola che non deve essere inferiore ai tre quarti della durata dell’anno scolastico.
Al riguardo si elencano alcuni punti fermi, che devono costituire da quadro di riferimento per garantire una partecipazione alla vita scolastica degli alunni stranieri utile e fruttuosa. Tali punti non sono proposti quali vincoli, bensì quali criteri di carattere organizzativo. Si veda. Il numero degli alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe non può superare di norma il 30% del totale degli iscritti, quale esito di una equilibrata distribuzione degli allievi con cittadinanza non italiana tra istituti che insistono sullo stesso territorio. Detto limite del 30% entra in vigore dall’anno scolastico 2010-2011 in modo graduale: viene infatti introdotto a partire dal primo anno della scuola dell’infanzia e dalle classi prime sia della scuola primaria, sia della scuola secondaria di I e di II grado. La soglia è poi derogabile, e può essere innalzata - con determinazione dell’Ufficio Scolastico Regionale - a fronte della presenza di alunni stranieri (come può frequentemente accadere nel caso di quelli nati in Italia) già in possesso delle adeguate competenze linguistiche; il limite del 30% può di contro venire ridotto per la presenza di alunni stranieri con una ridotta padronanza della lingua italiana, inadeguata a una compiuta partecipazione all’attività didattica, ovvero a fronte di particolari e documentate complessità.
 

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 16 dell’1 - 14 ottobre 2010

 

NEI NUOVI PROGRAMMI DELLE SUPERIORI CULTURA CATTOLICA E STORIA NAZIONALE

Le indicazioni e i programmi di insegnamento della religione cattolica, in relazione al riordino dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali, attuato dallo scorso settembre, sono stati aggiornati dalla Conferenza episcopale italiana con una proposta didattica che il Ministero dell’Istruzione ha adottato in via sperimentale a partire dall'anno scolastico 2010-11, per le classi prime dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali.
In quella proposta, l’insegnamento della religione cattolica è visto come rispondente all’esigenza di riconoscere nei percorsi scolastici il valore della cultura religiosa e il contributo che i principi del cattolicesimo hanno offerto e continuano a offrire al patrimonio storico del popolo italiano. L’offerta formativa è originale e oggettivamente fondata, rivolta a tutti coloro che intendano liberamente avvalersene, e mira ad arricchire la formazione globale della persona con particolare riferimento agli aspetti spirituali ed etici dell’esistenza, in vista di un efficace inserimento nel mondo civile, professionale e universitario; offre contenuti e strumenti che aiutano lo studente a decifrare il contesto storico, culturale e umano della società italiana ed europea, per una partecipazione attiva e responsabile alla costruzione della convivenza umana.
Lo studio della religione cattolica, effettuato con strumenti didattici e comunicativi adeguati
all’età degli studenti, promuove la conoscenza del dato storico e dottrinale su cui si fonda la religione cattolica, posto sempre in relazione con la realtà e le domande che gli studenti si pongono, nel rispetto delle convinzioni e dell’appartenenza confessionale di ognuno. Nell’attuale contesto multiculturale della società italiana la conoscenza della tradizione religiosa cristiano cattolica costituisce fattore rilevante per partecipare a un dialogo fra tradizioni culturali e religiose diverse.
Al termine del primo biennio, che coincide con la conclusione dell’obbligo di istruzione, lo studente sarà in grado di porsi domande in ordine alla ricerca di un’identità libera e consapevole; di rilevare il contributo della tradizione ebraico-cristiana allo sviluppo della civiltà umana nel corso dei secoli; di impostare una riflessione sulla dimensione religiosa della vita. Al termine dell’intero percorso di studio, lo studente sarà nella condizione di sapersi interrogare sulla propria identità umana, religiosa e spirituale, in relazione con gli altri e con il mondo, al fine di sviluppare un maturo senso critico e un personale progetto di vita; di confrontarsi con la visione cristiana del mondo, in modo da elaborare una posizione personale libera e responsabile, aperta alla ricerca della verità e alla pratica della giustizia e della solidarietà.
Gli obiettivi specifici di apprendimento sono declinati in conoscenze e abilità riconducibili in vario modo a tre aree di significato: antropologico-esistenziale, storico-fenomenologica, biblico-teologica.
Con specifico riferimento ai licei, la proposta didattica condivide il profilo culturale, educativo e professionale ed offre un contributo specifico sia nell’area metodologica (arricchendo le opzioni epistemologiche per l’interpretazione della realtà) sia nell’area logico-argomentativa (fornendo strumenti critici per la lettura e la valutazione del dato religioso). Sul piano contenutistico, l’insegnamento si colloca nell’area linguistica e comunicativa (tenendo conto della specificità del linguaggio religioso e della portata relazionale di qualsiasi discorso religioso), interagisce con quella storico-umanistica (per gli effetti che storicamente la religione cattolica ha prodotto nella cultura italiana, europea e mondiale) e si collega (per la ricerca di significati e l’attribuzione di senso) con l’area scientifica, matematica e tecnologica. È responsabilità dell’insegnante adattare le presenti indicazioni ai diversi indirizzi scolastici anche attraverso la realizzazione di opportuni raccordi interdisciplinari.
Nell’ambito degli istituti tecnici e professionali, l’insegnamento si colloca nell’area di istruzione generale, arricchendo la preparazione di base e lo sviluppo degli assi culturali attraverso una peculiare opzione epistemologica per l’interpretazione e la valutazione critica della realtà, mediante contenuti disciplinari, declinati in obiettivi specifici di apprendimento e articolati in conoscenze e abilità, in conformità con le linee guida. L’insegnante modella una proposta che aiuti l’allievo ad approfondire il rapporto tra dimensione etico-religiosa e dimensione tecnico-scientifica nella lettura della realtà. Nel caso in cui gli istituti professionali realizzino corsi triennali per il conseguimento dei diplomi di qualifica rilasciati secondo gli ordinamenti previgenti, sono adottati nei primi due anni gli obiettivi indicati ordinariamente per il primo biennio e nel terzo anno viene rimessa alla responsabile valutazione dell’insegnante la selezione, tra quelli previsti per il secondo biennio, degli obiettivi più idonei ad assicurare una coerente conclusione del percorso.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 9 del 29 aprile - 12 maggio 2011

 

QUANDO L’ESAME E’ OBBLIGATORIO
E’ principio costituzionalmente garantito che nel nostro ordinamento l’insegnamento sia libero, e che enti e privati abbiano il diritto di impartire l’istruzione e di costituire scuole e istituti di educazione. Lo Stato si riserva di dettare le norme e i principi generali in tema di istruzione, e si impegna a istituire scuole pubbliche per tutti gli ordini e i gradi, aperte a tutti. Con legge, fissa i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità – le cosiddette scuole paritarie, equiparate in tutto alle scuole statali, in presenza di precisi requisiti di corrispondenza agli ordinamenti generali dell'istruzione - e assicura ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole pubbliche.
Il sistema nazionale di istruzione è quindi attualmente costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie. Accanto a queste permangono le scuole private non paritarie: scuole e corsi non legalmente riconosciuti; scuole legalmente riconosciute; scuole pareggiate. All’interno di questo sistema ispirato al principio di libertà, la sola condizione richiesta dalla Costituzione, a salvaguardia di una certa uniformità formativa, nell’interesse dei singoli e della collettività, è data dall’obbligo di un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole, per la conclusione di essi, e per l’abilitazione all’esercizio professionale.
Nell’ambito della massima libertà di scelta degli strumenti di istruzione e formazione, si colloca la cosiddetta istruzione paterna alla quale non è inusuale che le famiglie ricorrano nei confronti degli alunni in età di scolarizzazione obbligatoria, sia pure avvalendosi di insegnamenti erogati in strutture private non paritarie. A tale proposito, recentemente si è discusso – non senza un po’ di confusione - della questione se in questi casi vi sia l’obbligo per gli alunni, al termine di ciascun anno scolastico, di sostenere esami di idoneità ai fini della prosecuzione dell’iter scolastico anche in presenza di una dichiarata volontà di proseguire gli studi presso una scuola non appartenente al sistema nazionale di istruzione.
Il Ministero dell’Istruzione ha affrontato il problema dapprima con una circolare 20.6.2005 n. 5693, con oggetto istruzione paterna ed esami di idoneità alla classe successiva, nella quale ha richiamato l’attenzione su quanto disposto dall’art. 1, comma 4, del decreto legislativo n. 76/2005, concernente la definizione delle norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. La norma citata, alla cui luce deve, secondo il Ministero, essere esaminato e risolto il problema segnalato, stabilisce che “i genitori, o chi ne fa le veci, che intendano provvedere privatamente o direttamente all’istruzione dei propri figli, ai fini dell’esercizio del diritto-dovere, devono dimostrare di averne la capacità tecnica o economica e darne comunicazione anno per anno alla competente autorità, che provvede agli opportuni controlli”. La circolare n. 5693 mette in evidenzia una serie di circostanze: che i genitori che si avvalgono della facoltà loro riconosciuta di fare ricorso all’istruzione paterna per assolvere ai loro obblighi nei confronti della scolarizzazione dei propri figli non possono effettuare tale scelta “una tantum” ma devono confermarla anno per anno; che tale conferma periodica è finalizzata a consentire alla competente autorità di disporre verifiche in ordine alla capacità non solo economica ma anche tecnica del richiedente; che la capacità tecnica da accertare mira a garantire l’interesse sociale generale a che tutti i giovani siano posti in grado di acquisire abilità e conoscenze uniformi attraverso insegnamenti di soggetti a ciò qualificati. Da tutti questi elementi si deduce che occorre determinare con attenzione le modalità attraverso le quali effettuare “gli opportuni controlli” previsti dalla legge. Il Ministero, posto che non è seriamente ipotizzabile che ciò possa avvenire in modo diretto con accertamenti sui genitori, necessariamente ipotizza che tali controlli debbano avvenire indirettamente mediante il riscontro degli apprendimenti realizzati dal soggetto destinatario degli interventi educativi. E lo strumento di riscontro più semplice ed efficace sembra essere il ricorso ad esami di idoneità per il passaggio alla classe successiva, indipendentemente dalla circostanza che gli studi vengano proseguiti privatamente o presso una scuola del sistema nazionale di istruzione. Tale linea realizza anche, rafforzando la tesi del Ministero dell’Istruzione, la possibilità di fornire allo studente interessato una documentazione storica e periodica del percorso formativo seguito, coerentemente con i principi generali che si traggono dal sistema complessivo vigente in materia di valutazione, e così uniformemente a quanto accade agli studenti che si avvalgono del sistema nazionale di istruzione, ancor più oggi, attraverso il nuovo strumento del portfolio.

Domenico Barboni

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 5,10- 23 marzo 2006

 

Sostegno

I DIRITTI DELL’ALUNNO PORTATORE DI HANDICAP
Il minore disabile ha diritto alla presenza dell’insegnante di sostegno per il massimo delle ore di sostegno previste in relazione il tipo di corso scolastico frequentato. Il Tribunale di Roma - con pronuncia cautelare resa il 4.3.2004 su ricorso R.G. n. 13041/04 – si esprime su un tema delicato e di grande attualità, quale il diritto allo studio, e in particolare il all’inserimento scolastico, del minore portatore di handicap. Da tempo sono riconosciuti e apprezzati i benefici dell’integrazione del disabile nell’ambiente scolastico, sotto il profilo del maggiore apprendimento, dello sviluppo delle capacità di socializzazione e comunicazione, della crescita intellettiva. Ugualmente sono note le oggettive difficoltà che la presenza degli alunni portatori di handicap pone al sistema dell’istruzione, affrontate e risolte negli anni dal legislatore e dalla stessa amministrazione in modo più o meno efficace.
La vicenda
Nel caso all’esame del giudice, l’alunno presentava un disturbo di apprendimento all’interno di un ritardo mentale che necessitava, sulla base di autorevoli pareri medici, di un insegnamento individualizzato in un rapporto uno a uno. La scuola aveva inopinatamente riconosciuto al minore la presenza di un insegnante di sostegno per un ridotto numero di ore settimanali – quattro ore e mezzo -, ritento dalla famiglia inadeguato a realizzare il contenuto essenziale del suo diritto fondamentale all’educazione e all’istruzione. Il giudice, alla luce delle circostanze di fatto e delle norme vigenti, riconosce la necessità e l’urgenza di assicurare all’alunno il massimo delle ore di sostegno previste per il tipo di corso scolastico frequentato e ordina all’amministrazione di assicurare la presenza dell’insegnante di supporto in quei termini.
Le motivazioni
Si premetta che la giurisprudenza, occupandosi del diritto all’inserimento scolastico da parte del minore disabile, ha chiarito, con l’occasione, che la materia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. Più in generale, ha giudicato che nei rapporti individuali di utenza tra erogatori di pubblici servizi (tra i quali rientra l’istruzione) e soggetti privati (tra i quali sono compresi gli alunni e le loro famiglie), la cognizione appartiene al giudice ordinario; come ha precisato la suprema Corte (n.558/2000), in tali rapporti l’individuazione del giudice deve avvenire in base alla consistenza della situazione giuridica di cui si domanda la tutela, riconoscendosi la sussistenza della giurisdizione ordinaria relativamente ai diritti soggettivi – tra i quali rientra il diritto allo studio e all’inserimento scolastico. A tale proposito, il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata è garantito innanzitutto dalla Carta Costituzionale, che all’art. 38 recita: “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale. Ai compiti previsti da questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”; all’art. 34: “La scuola è aperta a tutti“; all’art. 2: “La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo…nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”; inoltre, il diritto all’inserimento sociale dei disabili è garantito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea approvata il 7 dicembre 2000 e dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Il diritto discende, inoltre, dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 - legge quadro per l’assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate - che, all’art. 12 garantisce “il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata …nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie” e stabilisce che “l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione“ e che “l’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti da disabilità connesse all’handicap”. La natura assoluta ed inviolabile del diritto è confermata dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449 che, dopo aver fissato la dotazione organica di insegnati di sostegno per l’integrazione degli alunni handicappati nella misura di un insegnante per ogni gruppo di 138 alunni complessivamente frequentanti gli istituti scolastici statali della provincia, consente espressamente, in attuazione dei principi della citata legge n. 104 del 1992 ai fini della integrazione scolastica degli alunni handicappati, “con … il ricorso all’ampia flessibilità organizzativa e funzionale delle classi prevista dall’art. 21, commi 8 e 9, della legge 15 marzo 1997, n. 59…la possibilità di assumere con contratto a tempo determinato insegnanti di sostegno in deroga al rapporto docenti-alunni….in presenza di handicap particolarmente gravi”. Pertanto, l’attribuzione al minore handicappato di un numero non adeguato di ore di sostegno didattico si risolve nella ingiustificata compromissione di un fondamentale diritto dell’individuo portatore di handicap alla educazione ed all’inserimento scolastico, diritto non suscettibile di affievolimento. In particolare, nel caso sottoposto al Tribunale di Roma, l’amministrazione scolastica ha esercitato la propria discrezionalità - tecnica, perché limitata all’apprezzamento del grado di invalidità e della gravità della menomazione – in modo illogico, in presenza di un alunno individuato come persona handicappata, anche alla luce della documentazione proveniente da autorità mediche qualificate; neanche le esigenze finanziarie invocate dall’amministrazione possono giustificare la compressione in modo così drastico e frustrante del diritto alla istruzione e all’inserimento scolastico poiché la stessa legge che fissa il limite - determinato dal rapporto tra popolazione scolastica abile e insegnanti di sostegno - consente di derogarvi nei casi gravi.
Il Tribunale conclude giudicando che la sottrazione del supporto educativo dell’insegnante di sostegno, o l’attribuzione di un numero di ore di sostegno non adeguate alla realizzazione del diritto garantito dalla legge e dalla Costituzione al minore handicappato, si risolve nella compromissione di un diritto fondamentale della persona, sicché deve essere ordinato all’amministrazione di ristabilire le condizioni didattiche ed assistenziali che consentano di assicurare all’alunno il supporto dell’insegnate di sostegno per tutto l’orario scolastico.

Domenico Barboni

Pubblicato su “il sole 24 ore scuola” il 16 aprile 2004.

 

L’INFERMIERE VA IN CLASSE PER L’ALUNNO MALATO GRAVE
Il minore affetto da una patologia che necessiti di adeguata assistenza durante l’orario scolastico da parte di personale specializzato ha diritto alla presenza presso la scuola, durante il tempo di frequentazione, di un infermiere professionale affinché siano tutelate le sue esigenze terapeutiche.
Il diritto riconosciuto dal Giudice (Tribunale di S. Maria C.V., decisione 2.3.1005) trova fondamento in imprescindibili principi e valori costituzionali, quali il diritto all’educazione e allo studio, e in particolare il diritto di frequentare la scuola aperta a tutti, il diritto alla salute quale diritto fondamentale dell’uomo e interesse della collettività.
La vicenda
I genitori di un bambino affetto da un grave patologia che richiede, ai fini dell’inserimento nella scuola materna statale, la presenza costante di personale infermieristico, hanno chiesto al Giudice di assicurare durante l’orario scolastico di frequentazione del minore la presenza presso l’Istituto di un infermiere al fine di tutelare le esigenze terapeutiche dello stesso. I genitori hanno ritenuto di rivolgersi al giudice perché il Comune competente, aveva individuato nell’istituzione scolastica presso cui il bambino era iscritto un idoneo locale da adibire a ambulatorio con tette le attrezzature per fronteggiare le sue esigenze terapeutiche; l’Asl non aveva provveduto ad assegnare il necessario personale infermieristico; il dirigente dell’istituto scolastico aveva dichiarato di non poter accogliere in piena sicurezza il minore a scuola. Il tribunale adito ha accolto le istanze della famiglia dell’alunno riconoscendo la prevalenza del diritto del bambino a frequentare la scuola materna nonchè la sussistenza del pericolo di un pregiudizio irreversibile determinato dal protrarsi della situazione di lesione del patrimonio morale e material del minore: su tali presupposti il giudice ha quindi ordinato all’Asl competente ci assicurare durante l’orario scolastico di frequentazione del minore la presenza presso la scuola di un infermiere professionale.
I Motivi della decisione
Il giudice ha dapprima evidenziato come il minore in questione vanta una posizione soggettiva meritevole di tutela, in quanto titolare di un diritto soggettivo perfetto non suscettibile di affievolimento garantito dalla Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla l. n. 104/1992. La Costituzione riconosce infatti all’art. 34 che la scuola è aperta a tutti e all’art. 38 che gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale; l’art. 32 della Costituzione tutela poi la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. La l. n. 104/1992 persegue specificamente un evidente interesse nazionale stringente e infrazionabile quale quello di garantire in tutto il territorio nazionale un livello uniforme di realizzazione dei diritti fondamentali dei soggetti portatori di handicap, s’è detto costituzionalmente garantiti. La tutela normativa del portatore di handicap investe diversi settori, prevedendo interventi di tipo sanitario e assistenziale, forme concrete di integrazione scolastica e di inserimento nel campo della formazione professionale e nell’ambiente di lavoro con eliminazione di tutti quegli ostacoli che possono limitare il normale dispiegarsi della vita di relazione. In tale contesto, un posto rilevante occupa l’aspetto dell’istruzione e integrazione scolastica: l’art. 12, l. n. 104/1992 garantisce il diritto all’istruzione e all’educazione della persona handicappata nelle scuole di ordine e grado ivi compresa la scuola materna e che l’esercizio di tale diritto non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap.
Nel caso di specie, il bambino risulta affetto da una malformazione congenita che non comporta per il minore alcun deficit intellettivo e ritardi dell’apprendimento tant’è che non è necessaria neppure la presenza di un insegnante di sostegno; la patologia comporta invece delle gravi disabilità fisiologiche tali da richiedere l’assistenza costante di personale infermieristico addestrato alla terapia d’urgenza. Il giudice ha quindi ritenuto che le condizioni di salute del minore e il suo diritto allo studio possono essere adeguatamente tutelate solo attraverso un’assistenza continua di un infermiere operante presso la struttura scolastica, che durante l’orario di frequentazione sia in grado di intervenire tempestivamente. Peraltro, nel caso all’esame del Tribunale, il Comune ha già provveduto ad individuare nell’istituto dove il bambino è iscritto un locale attrezzato con farmaci e altro materiale necessario per il primo soccorso, preoccupandosi altresì di richiedere all’Asl di zona l’assegnazione di personale infermieristico specializzato al fine di dare adeguata assistenza al minore durante l’orario scolastico – senza esito.
A tali considerazioni sulla fondatezza della pretesa dei genitori del minore, il giudice ha aggiunto alcuni argomenti sulla sussistenza del pericolo di un danno grave e irreparabile al richiamato diritto all’integrazione scolastica del minore. Siffatto pericolo è configurabile tutte le volte in cui il diritto vantato non si presta ad un risarcimento idoneo a realizzare integralmente il contenuto del diritto stesso, sia che la sua lesione comporti la contemporanea lesione di beni e interessi funzionalmente connessi, sia che la lesione implichi un’irreversibilità degli effetti pregiudizievoli causati. Nel caso de quo, è evidente che i tempi processuali potrebbero superare la durata di un anno e quindi pregiudicare gravemente ed irreparabilmente il diritto allo studio, tenuto altresì conto che l’anno scolastico risulta ormai già avviato. Quindi, volendo far fronte al paventato pregiudizio irreversibile determinato dal protrarsi della situazione di lesione del patrimonio morale e materiale del minore, il Tribunale conclude con un ordine cautelare all’Asl di provvedere senza ritardo ad assicurare la presenza presso l’istituto scolastico di un infermiere professionale.

Anna Nardone

Pubblicato su “il Sole 24 Ore Scuola”, 8 aprile 2005.

Stranieri

SCUOLA E IMMIGRAZIONE
La presenza di immigrati stranieri nel nostro paese è un fenomeno da qualche anno in aumento, che è arrivato ad interessare prepotentemente il mondo della scuola: non a torto la scuola viene ormai indicata come principale cassa di risonanza dei rapidi mutamenti del nostro sistema sociale. Qualche numero significativo, in una città, Milano, dove la presenza di stranieri è particolarmente importante: gli studenti di cittadinanza non italiana sono oltre il dieci per cento: ventinovemila in città e provincia. Di questi, il tredici per cento frequenta le superiori, per lo più istituti tecnici e professionali, ma la maggioranza è costituita da bambini in età elementare. Sempre a Milano, in alcune scuole elementari gli alunni italiani sono addirittura un’esigua minoranza: i bambini stranieri raggiungono talora il settanta per cento degli iscritti. Sono peruviani, cinesi, filippini, albanesi e marocchini, romeni, ma sono in forte aumento ucraini e moldavi, figli delle badanti che assistono gli anziani. Di fronte ad un fenomeno di così vaste proporzioni, e in aumento, la scuola non sembra ad oggi preparata, benché animata da buona volontà, da competenze, da aspirazioni all’integrazione e a un‘istruzione per tutti. Si lamenta la mancanza di risorse e di energie, di insegnanti di sostegno, di facilitatori linguistici e di apprendimento, e, soprattutto, di una strategia adeguata, complessa, e articolata. A questo proposito, se è evidente che queste nuove forme di integrazione richiedono maggiori risorse, è anche vero che si può cominciare sviluppando la capacità di sfruttare al meglio quelle disponibili. I problemi sono tanti: problemi di lingua, quindi di apprendimento dei programmi e di dispersione; problemi di ritardo scolastico, con una netta differenza tra età anagrafica e classe di inserimento; problemi legati alla frequente circostanza che gli alunni stranieri si iscrivono a scuola ad anno scolastico iniziato, rendendo ancora più difficile per i docenti aiutarli; problemi di dialogo con le famiglie, spesso chiuse. Questi disagi si riflettono sull’attività didattica, che procede a rilento, a discapito del sistema dell’istruzione in generale, operatori e alunni. I progetti per fronteggiare le difficoltà legate all’inserimento di questi nuovi studenti non mancano, e sono il frutto di una collaborazione tra il Ministero dell’istruzione e gli enti territoriali (Comune, Regione, Provincia), fondata anche sul confronto con le esperienze maturate all’estero, o in Italia, nelle scuole maggiormente attive e all’avanguardia. Tra le iniziative già sperimentate in alcuni istituti italiani, si ricordano: traduzioni di pagelle, circolari, delibere; incontri di propulsione integrativa con genitori. Esemplare è il caso di un Istituto professionale milanese, nel quale il trenta per cento degli alunni del corso diurno, e il quaranta per cento del serale è straniero. L’istituto è definito “scuola inclusiva”, perché accetta le differenze e le valorizza; gli stranieri vengono chiamati "nuovi cittadini", persone in cerca di lavoro e speranze, ma anche risorsa per la società civile. Nella scuola vengono organizzati corsi intensivi di italiano, cui i ragazzi stranieri vengono sottoposti ancora prima di cominciare le lezioni previste dal programma: appena arrivati dal paese di origine, i ragazzi si abituano così a dover scrivere e studiare in una lingua diversa dalla loro. Inoltre, nelle classi viene creata la figura del tutor mediatore: ogni studente straniero viene affiancato da un compagno di classe italiano che per tutto l’anno lo segue nel percorso di studio; si ritiene, che in questo modo si instauri una relazione tra pari che può avvantaggiare entrambi i giovani. L’esperimento condotto nell’istituto milanese sembra funzionare: i ragazzi stranieri si sentono più vicini ai compagni italiani; gli studenti italiani apprezzano questa maggiore responsabilizzazione, tantopiù che l’incarico di tutor viene inserito tra le attività che consentono di ottenere crediti formativi.
Dalla cooperazione tra Ministero e enti territoriali, ed anche dall’esame di queste prime esperienze, sono emerse alcune proposte: i Mat - moduli di accoglienza temporanea -, brevi corsi intensivi di lingua italiana, sul modello francese; tali moduli partiranno il prossimo settembre. Si è pensato all’organizzazione di gruppi – classe finalizzati a creare un giusto equilibrio tra integrazione e formazione culturale; ad un ripensamento e riconversione di strutture quali i consigli di classe, di istituto, ecc., in processi di acculturazione e propulsione integrativa per gli adulti. Considerate le dimensioni del problema, si assiste ad un rafforzamento della collaborazione tra istituzioni. In particolare, gli enti territoriali sono chiamati a svolgere un ruolo più attivo che nel passato, e sono perciò coinvolti in modo importante nell’elaborazione di strategie risolutive: ad esempio, a decorrere dal prossimo anno scolastico la Provincia di Milano metterà a disposizione i propri uffici decentrati da trasformare in centri di orientamento.

Domenico Barboni

Pubblicato su “il Sole 24 Ore Scuola”, 20 maggio 2005.

 

IMMIGRAZIONE IN CLASSE SENZA DEROGA ALLE NORME
Le esigenze educative e formative del minore non valgono a derogare le disposizioni sull’immigrazione.
I motivi connessi allo sviluppo psico-fisico del minore, e in particolare alle esigenze di compimento del suo intero percorso educativo, non sono suscettibili di produrre l’effetto di eludere la disciplina dell’immigrazione, legittimando ingressi o soggiorni illeciti. La Cassazione ha avuto occasione di enunciare il principio, risolvendo la vicenda in cui i genitori di un minore straniero chiedevano di essere autorizzati alla permanenza nel territorio italiano, in deroga alle norme sull’immigrazione, per poter offrire al figlio migliori opportunità di sviluppo psico-fisico rispetto a quelle del suo paese d’origine, tenuto conto delle condizioni di salute del minore, del proficuo inserimento nella scuola frequentata, delle amicizie intrecciate (Sentenza n. 8510/2002).
Il quadro normativo.
Il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero (cfr. articoli 31 e seguenti del d.lgs. n. 286/1998) prevede che il figlio minore della straniero segue la condizione giuridica del genitore con il quale convive. Stabilisce altresì che i minori stranieri presenti sul territorio sono soggetti all'obbligo scolastico, e che ad essi si applicano tutte le disposizioni in materia di diritto all'istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica, di effettività del diritto allo studio, anche mediante l'attivazione di appositi corsi e iniziative per l'apprendimento della lingua italiana. Con particolare riferimento alla vicenda in oggetto, l’articolo 31, comma 3, del testo unico citato, prevede che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico, e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, può autorizzare l'ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni in materia di disciplina dell’immigrazione e di condizione dello straniero; l'autorizzazione è revocata quando vengono a cessare i gravi motivi che ne giustificano il rilascio o per attività del familiare incompatibili con le esigenze del minore o con la permanenza in Italia. La disposizione pone, in concreto, evidenti problemi di confronto e bilanciamento tra le esigenze educative del minore – legate, da un lato, alla migliore offerta formativa fruibile nel nostro paese, dall’altro, alla necessaria vicinanza della famiglia – e le esigenze di ordine e sicurezza sottese alle norme in tema di ingresso e permanenza di stranieri nel territorio italiano.
Le motivazioni.
Nella vicenda all’esame della Corte di Cassazione viene evidenziato, anzitutto, che la norma appena richiamata pone un’eccezione alla regola generale seconda la quale il minore deve seguire la condizione dei genitori, tanto se essi siano espulsi, quanto, al contrario, se chiedano il ricongiungimento. Infatti, il figlio minorenne per così dire attrae il familiare adulto; con tutti i rischi connessi all’eventualità che gli adulti - per ottenere in modo surrettizio autorizzazioni indebite all’ingresso od alla permanenza nel nostro territorio, profittino strumentalmente dei diritti doverosamente riconosciuti all’infanzia, anche da specifici trattati internazionali. Tale preoccupazione impone un’interpretazione rigorosa della norma eccezionale, e cioè che le esigenze di tutela del minore straniero - tali da comportare l’autorizzazione alla permanenza sul territorio italiano dei familiari privi dei requisiti di legge - siano correlate esclusivamente alla sussistenza di circostanze contingenti ed eccezionali, e non in rapporto a situazioni con carattere di normalità e stabilità. Dette situazioni sarebbero in netto contrasto con la previsione testuale di un periodo di tempo determinato e con la revocabilità dell’autorizzazione. Ne deriva che l’autorizzazione in deroga non può essere concessa in presenza di situazioni di indeterminabile o lunghissima durata, come il compimento dell’intero processo educativo formativo del minore, chiaramente esorbitanti dalla lettera e dalla ratio legis, nonché suscettibili di produrre l’effetto anomalo di eludere la disciplina dell’immigrazione legittimando ingressi o soggiorni illeciti. D’altro canto, occorre evitare un’interpretazione della norma che vanifichi totalmente l’intenzione di corrispondere alle speciali esigenze dell’infanzia. In primo luogo, quindi, è necessario che vi sia una stretta connessione fra la presenza del familiare in Italia e le esigenze dello sviluppo psico-fisico del fanciullo: ove l'attività del familiare è o diviene incompatibile con tali esigenze, l'autorizzazione non è concessa o revocata (ciò significa che la situazione deve essere tenuta sotto controllo). In secondo luogo, non deve trattarsi di esigenze generiche, ma determinate da motivi gravi, corrispondenti alla necessità di non privare traumaticamente il fanciullo della fruizione di diritti fondamentali, riconosciuti dalla legge a prescindere dalla sua condizione di straniero – quali il diritto alla salute; il diritto all’istruzione obbligatoria. Infine, deve trattarsi di esigenze limitate nel tempo. A tale ultimo proposito, la Corte aggiunge che mentre i concetti di contingenza ed eccezionalità si conformano al dettato normativo (secondo i criteri legali di gravità dei motivi, eccezionalità della deroga, temporaneità dell’autorizzazione), questo risulta invece vanificato se limitato a situazioni di emergenza e di pericolo attuale, le quali potrebbero giustificare, anche a prescindere dalla previsione dell’articolo 31 citato, comportamenti in deroga sotto il profilo dello stato di necessità. Pertanto, escluso che il legislatore abbia inteso garantire lo sviluppo psico fisico del minore straniero ad ogni costo - essendo anzi limitata e circoscritta positivamente tale garanzia - la Corte ha giudicato che nella la situazione concretamente dedotta in al suo esame non erano ravvisabili esigenze eccezionali del minore tali da giustificare la permanenza dell’intero nucleo famigliare, benchè irregolare, in Italia.

Domenico Barboni

Pubblicato su “il sole 24 ore scuola” del 14 maggio 2004.

 

LA CROCE SEGNO DI LIBERTA’
Con una recente decisione, meno clamorosa sotto il profilo mediatico di precedenti pronunce sull’analogo tema, il Tar del Veneto ha deciso che il crocifisso può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica perché non solo non è in contrasto con il principio della laicità dello Stato ma è addirittura affermativo e confermativo dello stesso. La sentenza muove da una serie di premesse: la scuola statale non ha un proprio credo da proporre né un agnosticismo da privilegiare; la nostra società si sta trasformando, anche per la presenza di un numero sempre maggiore di immigrati appartenenti a culture diverse; nella scuola pubblica non è lecito imporre alcun tipo di credo religioso. Da tali premesse, i giudici concludono che nel momento attuale, comunque, il crocifisso in classe presenta una valenza formativa, e può e deve essere inteso sia come emblema della nostra storia, identità e cultura, sia come simbolo dei principi stessi di libertà, uguaglianza e tolleranza. Invero, si aggiunge, i valori fondanti di accettazione e rispetto del prossimo propri del cristianesimo sono stati trasfusi nei principi costituzionali di libertà dello Stato, sancendo la condivisione di alcuni principi fondamentali della Repubblica con il patrimonio cristiano. Il motivo ispiratore della decisione del Tar del Veneto è riassunto nel passaggio che definisce la croce - simbolo del cristianesimo, che non può escludere nessuno senza negare se stessa - il segno universale dell’accettazione e del rispetto per ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente da ogni sua credenza, religiosa o meno. I giudici precisano che la croce in classe, rettamente intesa, prescinde dalle libere convinzione di ciascuno, non impone e non prescrive nulla a nessuno, ma implica soltanto una riflessione, necessariamente guidata dai docenti, sulla storia italiana e sui valori condivisi della nostra società come giuridicamente recepiti nella nostra Costituzione.
Non sono mancati gli apprezzamenti da parte dei rappresentanti delle altre confessioni. In particolare, le associazioni più rappresentative dell’Islam in Italia condividono l’affermazione della centralità del cristianesimo nella cultura del nostro paese e non ritengono la presenza del crocifisso lesiva della loro fede religiosa. Con ciò, prendono le distanze da certe tesi estremistiche e minoritarie, che hanno recentemente messo in dubbio la legittimità della presenza del crocifisso anche nei seggi elettorali, e sono giunte a definire la sentenza del Tar Veneto come metagiuridica e insensata.
La tesi sostenuta dai giudici amministrativi del Veneto pare porsi in linea con quella dottrina giuridica europea favorevole all’inserimento nello Statuto Europeo del richiamo alle radici cristiane – risultata però in minoranza. In sostanza, tale tesi si fonda sull’assunto che il crocifisso è un simbolo religioso dell’identità nazionale, delle nostre radici culturali e storiche, e come tale non realizza sotto il profilo giuridico alcuna discriminazione nei confronti di altre identità religiose o agnostiche. La croce viene proposta come emblema supremo e universalmente condiviso dell’ingiustizia, anche per i non cristiani. Né varrebbe obiettare che la nostra società si è evoluta, avendo accolto altre culture: il crocifisso rimane l’espressione della nostra identità, e come tale resta un fattore educativo che favorisce il dialogo e la comprensione della nostra cultura, anche da parte di chi ne possiede una diversa, senza violenze e senza discriminazioni.
Ugualmente infondata è l’accusa che l’obbligo di esposizione del crocifisso rappresenterebbe un retaggio di un passato poco onorevole per la nostra identità storica e culturale, risalendo all’epoca fascista: in realtà, fu una legge del 1859 (Legge Casati) a disporre per la prima volta la presenza del crocifisso tra gli arredi nelle aule scolastiche, e ciò accadeva peraltro nel periodo di massima laicità dello Stato. In epoca successiva, la Costituzione repubblicana ha consacrato la piena conciliabilità tra confessione religiosa, libertà religiosa, principio di uguaglianza, preservando al tempo stesso il principio di laicità dello Stato. Com’è noto, infatti, accanto all’articolo 7 che disciplina i rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica – rimettendoli ai Patti Lateranensi e alle loro revisioni concordate -, gli articoli 8, 19 e 20, riconoscono che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge; che tutti hanno dritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, senza che il carattere religioso o di culto di un’associazione possa essere causa di alcuna discriminazione legislativa o fiscale. Infine, l’articolo 3 sancisce il principio di secondo cui tutti i cittadini hanno pari dignità e sono uguali davanti alla legge senza distinzione, per quel che qui rileva, di religione.

Domenico Barboni

Pubblicato su “il Sole 24 Ore Scuola”, 6 maggio 2005.

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