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Procedimento disciplinare

Commento giurisprudenziale

LA NOTA DISCIPLINARE NON E’ MODIFICABILE
(Il giudizio apposto sul registro equivale a un atto pubblico e come tale è “intangibile”)

Il dirigente scolastico non può modificare in via autoritativa la nota disciplinare apposta sul registro da un docente, vista la natura di atto pubblico del registro di classe, come tale intangibile da soggetti terzi, non presenti al momento del fatto annotato e dell'atto della relativa registrazione.
Così decide il Consiglio di Stato, con sentenza del 31.1.2011 n. 715, seguendo l’orientamento consolidato della Cassazione secondo cui la fede privilegiata dell’atto pubblico riguarda non solo fatti compiuti dal pubblico ufficiale o avvenuti in sua presenza, ma anche le dichiarazioni ricevute, quando di queste ultime si dia attestazione, nell’esercizio del potere di documentazione e nella contestualità della formazione dell’atto, a prescindere dalla veridicità delle dichiarazioni stesse (giurisprudenza pacifica; cfr., fra le tante, Cass. Civ., sez. I, 17.12.1990, n. 11964; Cass. Civ., sez. II, 30.7.1998, n. 7500 e 30.5.1996, n. 5013).
La vicenda
Un docente di scuola media proponeva ricorso avverso un provvedimento del dirigente scolastico con cui si disponeva la cancellazione di un’annotazione apposta dal medesimo professore sul registro di classe. Nella specie si trattava di una nota nella quale l’insegnante riportava la confessione di una violazione disciplinare ricevuta da un alunno. Il medesimo docente eccepiva a propria difesa l’immodificabilità in via autoritativa di un atto pubblico, quale deve ritenersi il registro di classe, ad opera del dirigente dell’Istituto scolastico interessato. Il dirigente giustificava il proprio intervento correttivo della nota in questione con la circostanza che la violazione disciplinare confessata aveva suscitato turbamento e reazioni, tali da compromettere il rapporto di fiducia tra famiglie e docenti, e da indurlo a riformulare i termini della nota stessa; ciò in forza del potere del capo di istituto di intervenire con piena discrezionalità, in presenza di comportamenti lesivi della dignità della persona degli studenti e del decoro dell’istituzione scolastica, nonché di compromissione del rapporto di fiducia tra le famiglie degli alunni e la scuola.
Il Consiglio di Stato, chiamato a decidere il ricorso in appello, decide di accogliere le ragioni del docente, a tutela della natura pubblica della sua funzione e così degli atti compiuti.
Motivi della decisione
Osserva il giudice d’appello che nella vicenda in esame il professore si era trovato ad effettuare un accertamento di fatti di rilevanza disciplinare ed aveva apposto un’annotazione sul registro di classe, in ordine a quanto accertato: tale annotazione veniva
senz’altro ad integrare il contenuto del registro stesso, atto pubblico, in virtù del rapporto organico tra la scuola e il docente, e così della funzione pubblica di quest’ultimo.
A questo proposito, il Consiglio di Stato precisa che la nota disciplinare di cui trattasi era intangibile anche se il professore aveva riportato sul registro fatti non accaduti in sua presenza e nemmeno dallo stesso percepiti direttamente. Fermo restando, infatti, che rientra fra i contenuti propri del registro di classe la registrazione di eventuali mancanze commesse dagli allievi (cfr. anche Cass. Pen., sez. V, 21.9.1999, n. 12862) e che appare innegabile la natura di atto pubblico del documento in questione (come verbalizzazione, effettuata dall’insegnante in quanto pubblico ufficiale, in ordine all’andamento ed al rendimento di ciascun allievo nel corso dell’anno scolastico: cfr. in termini TAR Sardegna 17.6.2002, n. 705), non può ritenersi che l’annotazione di cui si discute fosse estranea ai contenuti propri di quell’atto, assistiti dalla fede privilegiata dell’atto pubblico. Tale speciale efficacia probatoria riguarda, in effetti, non solo fatti compiuti dal pubblico ufficiale o avvenuti in sua presenza, ma anche dichiarazioni ricevute, quando di queste ultime si dia attestazione, nell’esercizio del potere di documentazione e nella contestualità della formazione dell’atto, a prescindere dall’intrinseca veridicità delle dichiarazioni stesse (giurisprudenza pacifica; cfr., fra le tante, Cass. Civ., sez. I, 17.12.1990, n. 11964; Cass. Civ., sez. II, 30.7.1998, n. 7500 e 30.5.1996, n. 5013). E’ dato di comune esperienza, inoltre, che la peculiare natura del registro di classe implica che siano nel medesimo registrate, come fatto storico e indipendentemente dalla relativa congruità, delle valutazioni espresse con voto numerico o in forma descrittiva di una condotta ritenuta disciplinarmente rilevante. Di quest’ultima natura era l’annotazione, di cui si discute nel caso di specie, avendo il professore riferito, nei termini dal medesimo percepiti, la circostanza segnalata dall’allievo. Le espressioni nella fattispecie utilizzate, in effetti, potevano apparire inadeguate, tenuto conto della peculiare situazione in cui il dirigente scolastico ed il consiglio di classe dovevano essere chiamati a formulare le proprie valutazioni, affinchè il responsabile potesse ben comprendere il significato del proprio gesto, con pieno e non traumatico ripristino di rapporti più corretti fra gli allievi.
L’annotazione di cui si discute, tuttavia, non era modificabile in via autoritativa ad opera di un soggetto terzo – ivi compreso il dirigente scolastico – non presente al momento del fatto stesso e all’atto della relativa registrazione. Quanto sopra induce a censurare l’intervento correttivo del dirigente scolastico, ma non esclude che il citato dirigente avesse comunque il potere-dovere di intervenire in una vicenda ritenuta tale da mettere in discussione la serenità dell’ambiente scolastico ed i rapporti con le famiglie: tale intervento, tuttavia, avrebbe potuto estrinsecarsi nell’avvio di un procedimento di verifica e riesame, al termine del quale fosse possibile evidenziare, con ulteriori annotazioni decise dal consiglio di classe, una diversa valutazione dell’episodio contestato, con soluzioni conclusive da adottare, anche nel pieno rispetto della sensibilità delle persone coinvolte e dell’autorevolezza del corpo insegnante.
In nessun caso, si conclude, secondo le norme vigenti, poteva ipotizzarsi un diretto intervento correttivo del dirigente scolastico sul registro di classe.

Anna Nardone
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 8 del 15 - 28 aprile 2011

 

ELIMINATI I CONSIGLI DI DISCIPLINA

Per effetto del decreto legislativo 150 del 2009 (c.d. riforma Brunetta) scompaiono i consigli di disciplina, organi collegiali provinciali o nazionali, chiamati ad esprimere il proprio parere sulla dichiarazione di proscioglimento da ogni addebito ovvero sull’inflizione della sanzione disciplinare nei confronti del personale della scuola.
Secondo la riforma, organo competente a condurre l’intero procedimento disciplinare relativo alle infrazioni di minore gravità, per le quali è prevista l'irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, diventa il dirigente scolastico, senza l’intervento di alcun collegio consultivo. Il dirigente, quando ha notizia di comportamenti punibili con taluna delle sanzioni disciplinari predette, senza indugio e comunque non oltre venti giorni contesta per iscritto l'addebito al dipendente medesimo e lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, con l'eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell'associazione sindacale, con un preavviso di almeno dieci giorni. Entro il termine fissato, il dipendente convocato, se non intende presentarsi, può inviare una memoria scritta. Il dirigente scolastico conclude il procedimento, con l'atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione dell'addebito.
Solo se la sanzione da applicare è più grave di quelle riferite, il dirigente trasmette gli atti, entro cinque giorni dalla notizia del fatto, all'ufficio provinciale competente per i procedimenti disciplinari, individuato presso l’Amministrazione Scolastica. Il predetto ufficio contesta l'addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento. La decorrenza del termine per la conclusione del procedimento resta comunque fissata alla data di prima acquisizione della notizia dell'infrazione, anche se avvenuta da parte del dirigente. La violazione dei termini di cui al presente comma comporta, per l'amministrazione, la decadenza dall'azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall'esercizio del diritto di difesa.
In passato, prima dell’intervento in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazione del Ministro Brunetta, il dirigente scolastico era competente per la sola irrogazione della censura.
L’avvertimento scritto rientrava invece nelle attribuzioni del provveditore, e per le sanzioni più gravi, l’irrogazione spettava al dirigente dell'ufficio scolastico regionale – subentrato al provveditore e al Ministro per effetto della riforma del 2007. Tuttavia, per le sanzioni superiori alla censura, gli uffici scolastici provinciali e regionali di spettanza, nell’espletamento della proceduta inerente all’irrogazione delle sanzioni, erano coadiuvati dai consigli di disciplina, organi collegiali consultivi. Si distinguevano il consiglio di disciplina del consiglio scolastico provinciale – presieduto dal provveditore; e il consiglio di disciplina del consiglio nazionale della pubblica istruzione – presieduto da un membro eletto tra i propri membri dal medesimo consiglio, a seconda che si trattasse di personale docente della scuola materna, elementare e media, ovvero, di personale direttivo degli istituti di ogni rodine e grado, del personale docente degli istituti e scuole di istruzione secondaria.
Innanzi al consiglio di disciplina competente, l’impiegato aveva facoltà di svolgere oralmente la propria difesa. Il consiglio deliberava a maggioranza, con voto segreto, e decideva che nessun addebito potesse essere mosso all’impiegato; ovvero che gli addebiti fossero in tutto o in parte sussistenti, proponendo la sanzione da applicare. L’organo competente all’irrogazione della sanzione provvedeva quindi a dichiarare prosciolto l’impiegato da ogni addebito, o ad infliggere la sanzione in conformità alla deliberazione del collegio di disciplina, salvo che non ritenesse di disporre in modo più favorevole all’impiegato.

Domenico Barboni
Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 22 del 18 dic. 2009 – 7 gen. 2010

 

PROFESSORI PUNIBILI SE SBAGLIANO

I dipendenti pubblici della scuola, al pari dei lavoratori privati, sono esposti alla responsabilità disciplinare per violazione degli obblighi di diligenza, che può comportare il licenziamento nel caso di mancanze molto gravi. La materia, con riferimento al personale docente, è tuttora regolata nelle sue linee fondamentali dal testo unico della scuola (d.lgs. n. 297/1994), al quale la contrattazione collettiva rimanda; mentre per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata), i contratti collettivi hanno introdotto una normativa specifica e in parte innovativa.
Il procedimento - comune a tutto il personale - prevede, a pena di nullità, per ogni sanzione disciplinare (ad eccezione del rimprovero verbale) la previa contestazione scritta dell'addebito al dipendente; la sua convocazione per la difesa, con l'assistenza di un procuratore o di un rappresentante sindacale; quindi l'adozione del provvedimento. In mancanza, trascorsi invano quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione viene applicata nei successivi quindici giorni.
Si rammenta che, in caso di procedimento ovvero di condanna penale è prevista la sospensione cautelare, facoltativa o obbligatoria, dall'impiego, sia per il personale Ata sia per il personale docente ed educativo, salvo il diritto ad un'indennità pari alla metà della retribuzione, e agli eventuali assegni per il nucleo familiare.
Con riferimento ai docenti, le norme prevedono una serie progressiva di sanzioni, la cui gravità è proporzionale all'importanza dell'infrazione, fino ad arrivare, appunto, al licenziamento, o destituzione: avvertimento scritto, consistente nel richiamo all'osservanza dei propri doveri; censura, una dichiarazione di biasimo scritta e motivata; sospensione fino a un mese; sospensione da uno a sei mesi; sospensione per sei mesi e successiva utilizzazione in compiti diversi, destituzione, ovvero cessazione dal rapporto d'impiego. Quest'ultima sanzione - alla quale, nella prassi, raramente l'amministrazione ricorre - viene in particolare inflitta per atti che siano in grave contrasto con i doveri inerenti alla funzione; per attività dolosa che abbia portato grave pregiudizio alla scuola, alla pubblica amministrazione, agli alunni, alle famiglie; per sottrazione indebita di beni o somme della scuole; per gravi inottemperanze a disposizioni commesse pubblicamente nell'esercizio delle funzioni; per richieste o accettazione di compensi o benefici in relazione ad affari trattati per ragioni di servizio; per gravi abusi di autorità.
In relazione al personale Ata, la scelta della sanzione applicabile avviene sulla base dei criteri generali stabiliti dalla contrattazione collettiva: intenzionalità del comportamento, grado di negligenza, imprudenza, e imperizia dimostrate; rilevanza degli obblighi violati; responsabilità connesse alla posizione di occupata dal dipendente; grado di danno o di pericolo causato all'Amministrazione, agli utenti o a terzi; sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti. Le sanzioni sono di gravità progressiva, in relazione all'entità dell'infrazione: rimprovero verbale; rimprovero scritto; multa di importo massimo di quattro ore di retribuzione; sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni; licenziamento con preavviso; licenziamento senza preavviso. Gli ultimi due provvedimenti disciplinari sono comminati - oltre che in ipotesi di recidiva plurima in mancanze quali assenze ingiustificate dal servizio fino a 10 giorni o arbitrario abbandono dello stesso; comportamenti minacciosi o gravemente ingiuriosi; alterchi con ricorso a vie di fatto - nei casi di occultamento di fatti relativi ad uso illecito uso sottrazione di somme o beni di pertinenza dell'amministrazione; rifiuto espresso del trasferimento; assenza ingiustificata ed arbitraria dal servizio per un periodo superiore a dieci giorni consecutivi lavorativi; persistente insufficiente rendimento; condanna passata in giudicato per un delitto che non consenta la prosecuzione le rapporto di lavoro. L'amministrazione ricorre poi alla misura più estrema del licenziamento senza preavviso nei casi di commissione, in genere, di fatti o atti dolosi di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; ovvero di condanna passata in giudicato per un delitto che non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità.
Si conclude ricordando che, a seguito della privatizzazione del rapporto, anche ai dipendenti pubblici vengono estese le disposizioni del codice civile in materia di lavoro, e quelle dello statuto dei lavoratori. Per l'effetto, in materia di disciplina, tutte le pubbliche amministrazioni hanno l'obbligo - a pena di nullità della sanzione - di portare a conoscenza dei lavoratori, mediante affissione in luogo accessibile a tutti, le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata, ed alle procedure di contestazione delle stesse.

Domenico Barboni

Pubblicato su "Il Sole 24 Ore Scuola" n. 17, 27 ottobre - 9 novembre 2006

 

PROCEDIMENTO DISCIPLINARE.

(Limiti della difesa tecnica)

Non esiste un principio di carattere generale che afferma il diritto a un difensore liberamente scelto nei procedimenti diversi da quelli giudiziari e in particolare amministrativi, come quelli di natura disciplinare.
In Consiglio di Stato ha così deciso con sentenza n. 1115/2004, rigettando le istanze di un agente di polizia, colpito dalla sanzione disciplinare della destituzione a seguito di condanna penale.
L’agente aveva sostenuto, tra l’altro, la violazione del suo diritto ad avvalersi di un difensore tecnico di sua fiducia anche nella sede disciplinare, caratterizzata da un procedimento di carattere contenzioso ma privo di terzietà, invocando l’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Inoltre ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dalla disposizione applicabile al procedimento disciplinare, che consente solo la difesa affidata ad altro dipendente della stessa amministrazione.
Il giudice respinge tutte le richieste, sostenendo che l’art. 6 della Convenzione europea si riferisce alla necessità di un difensore tecnico, liberamente scelto, per procedimenti in sede giudiziaria e, specificamente, in sede penale; la disposizione non contiene alcun principio di carattere generale estendibile ai procedimenti di carattere amministrativo, sia pure contenzioso, come quelli di natura disciplinari. Di conseguenza, la norma, e il principio in esso sancito, non può essere invocata nel caso all’esame, nè in generale nei procedimenti, anche contenziosi, diversi da quelli giudiziari.
Quanto alla questione di legittimità costituzionale, il giudice coglie l’occasione per chiarire che anche nel procedimento disciplinare sono comunque rispettati norme e principi costituzionali, quali l’articolo 2, che garantisce i diritti fondamentali della persona e tra questi il diritto alla difesa in giudizio, nella specie salvaguardato, sia pure con peculiari caratteristiche; l’articolo 3, che afferma il principio di uguaglianza, parimenti osservato in considerazione del fatto che un diverso trattamento è giustificato alla luce dell’evidente differenza esistente tra le esigenze difensive in sede penale e disciplinare, quest’ultima soltanto potendosi giovare anche di un eventuale controllo successivo nella sede giurisdizionale; infine l’articolo 97, che contempla i principi del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica amministrazione, i quali non risultano sotto alcun profilo compromessi per la circostanza che la difesa in sede disciplinare sia affidata ad altro dipendente dell’amministrazione di appartenenza, in grado comunque di fornire il necessario apporto di competenza e laboriosità.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il sole 24 ore” dell’11 giugno 2004.

 

PRIVATIZZAZIONE E GESTIONE
A seguito della cosiddetta privatizzazione (o depubblicizzazione) del rapporto di pubblico impiego, il sistema dei rapporti tra amministrazione datrice e pubblico dipendente viene ad essere ormai caratterizzato quasi esclusivamente dalla presenza di atti di natura privatistica. La sussistenza di atti amministrativi è residua: questi ultimi vengono individuati dal nuovo testo unico del pubblico impiego come atti di macro organizzazione, vale a dire atti che attengono alle linee fondamentali di organizzazione degli uffici e a l’individuazione degli uffici di maggiore rilevanza.
In questo rinnovato quadro normativo, è pacifico che le determinazioni gestionali del datore di lavoro pubblico privatizzato sono atti privatistici, come tali devoluti alla cognizione dell’autorità giurisdizionale ordinaria. In particolare, con riferimento ai provvedimenti di natura disciplinare adottati dai datori di lavoro pubblici nei confronti di dipendenti, fin dal 2000 le Sezioni Unite della Cassazione ne hanno confermato la natura privatistica, con ogni conseguenza in ordine alla giurisdizione – che è appunto del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro.
A tale proposito, è principio notorio che il giudice ordinario ha un potere di mera disapplicazione rispetto agli atti amministrativi presupposti, stante il divieto di imposizione di un obbligo di fare in capo alla P.A. da parte della magistratura ordinario; e che, invece, al giudice amministrativo è devoluta l’eventuale impugnativa principale dell’atto amministrativo. Tuttavia, è pur vero che il quadro dei poteri spettanti in materia al giudice ordinario è stato completato e ampliato dal nuovo testo unico del pubblico impiego. Questa norma ha attribuito in modo espresso al giudice del lavoro una potestà di adottare provvedimenti “di accertamento, costitutivi e di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”. Tale ultima previsione è assai rilevante, in quanto comporta il superamento, nella materia lavoristica, del divieto di sostituzione della volontà dell’organo giurisdizionale a quello della pubblica amministrazione.
La circostanza che i provvedimenti sanzionatori di natura disciplinare adottati dall’amministrazione nei confronti del dipendente pubblico sono qualificabili come atti gestionali. espressione di un potere datoriale di matrice privatistica, ha poi ulteriori e sorprendenti conseguenze. In particolare, trattandosi di atti con valenza privatistica nel senso descritto, rimane esclusa l’applicabilità della legge n. 241/90 in materia di procedimento amministrativo, e di tutti i principi da essa sanciti. Diventano quindi inammissibili censure e violazioni dedotte in relazione a tali disposizioni, e nel dettaglio, violazioni dell’obbligo di conclusione del procedimento entro un certo termine; violazioni dell’obbligo di motivazione, con indicazione delle ragioni di fatto e di diritto riferite alle risultanze dell’istruttoria; violazioni delle norme e principi in materia di diritto di comunicazione di avvio di procedimento; di accesso agli atti, di partecipazione e, in generale, di trasparenza. Oltre a ciò, trattandosi di atti di natura non provvedimentale, non sono ugualmente deducibili i tre tradizionali vizi di legittimità dell’atto amministrativo: violazione di legge, eccesso di potere, incompetenza. In particolare, la doglianza di eccesso di potere diventa inammissibile in quanto attinente a valutazioni discrezionali e comparative della pubblica amministrazione, conoscibili dal giudice ordinario solo ove riconducibili a vizi contrattuali, a violazione di buona fede, a disparità di trattamento, sotto forma, cioè, di violazione di previsioni contrattuali o legali.
Nell’ambito del contenzioso sulla materia disciplinare nel pubblico impiego, così come devoluto alla magistratura ordinaria – comunque giudice del rapporto e non dell’atto - rimangono invece proponibili i classici vizi rientranti nella patologia negoziale: nullità, annullabilità, risolubilità, inesistenza.

Domenico Barboni

Pubblicato su “il sole 24 ore scuola” dell’11 giugno 2004.

 

DOCENTI IN LITE, PROVE TECNICHE DI CONTENZIOSO
 

Dal 1 luglio 98 le controversie in tema di rapporti di lavoro alle dipendenze della PA sono devolute al giudice ordinario (D.Lgs. 80/98 e art. 68 D.Lgs. 29/93). Non fa eccezione il problema qui sollevato, relativo a obblighi di servizio previsti nel vigente CCNL della Scuola. Meno conosciuto è il nuovo procedimento per avviare il contenzioso. E’ obbligatorio far precedere ogni controversia giudiziaria da un tentativo di conciliazione stragiudiziale che, in attesa del nuovo contratto, si svolge avanti il collegio di conciliazione (art. 69-bis, D.Lgs. 29/93, modificato dall’art. 32, D.Lgs. 80/98) istituito presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro. E’ composto dal direttore dell’UPL (o da un suo delegato) che lo presiede, da un rappresentante del lavoratore e da un rappresentante della PA. La procedura è semplice e informale. Il lavoratore trasmette la richiesta all’UPL e alla PA di appartenenza direttamente ovvero mediante raccomandata. La domanda deve indicare l’amministrazione, la sede di servizio e il domicilio; i fatti e i motivi della pretesa; il rappresentante del lavoratore nel collegio conciliativo o la delega a un sindacato. Se la conciliazione riesce, anche parzialmente, si redige verbale che costituisce titolo esecutivo. Altrimenti, il collegio deve proporre una bonaria soluzione della controversia da riassumersi nel verbale anche se respinta. L’eventuale domanda giudiziale diventa procedibile trascorsi 90 giorni dalla presentazione della richiesta di conciliazione. I verbali sono acquisiti agli atti; il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti per il regolamento delle spese di lite.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Corriere Scuola” del 6 novembre ’98, rubrica “diritto & rovescio”.

 

TENUTO A RIFONDERE SE HO ARRECATO UN DANNO
La responsabilità per danno erariale si ravvisa ogni qualvolta il pubblico dipendente cagioni un pregiudizio economico alla amministrazione di appartenenza nell’esercizio delle proprie funzioni. Si tratta di un danno che può essere direttamente arrecato alla Pubblica Amministrazione ovvero a un terzo nei confronti del quale la Pubblica Amministrazione ha l’obbligo di risarcimento. La giurisdizione in tale materia appartiene alla Corte dei Conti. Ciò premesso, è indubbio che il responsabile amministrativo che non abbia tempestivamente versato i contributi previdenziali incorra nella responsabilità per danno erariale. In proposito si vedano le principali fonti normative di riferimento di cui agli artt. 18 e ss. del Testo Unico sul pubblico impiego n. 3 del 1957. Ovvero il disposto dell’art. 5 del Decreto interministeriale 28.5.1975, che individua le attribuzioni del segretario. Il vigente contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto scuola, agli artt. 51 e 57, definisce le mansioni aggiornate dei vari profili professionali del personale amministrativo tecnico e ausiliario e, quindi, i connessi doveri a cui il dipendente deve conformare la sua condotta.
La giurisprudenza della Corte dei Conti in varie circostanze ha individuato la responsabilità del segretario in correlazione con l’irregolare funzionamento della segreteria degli istituti (vedi Corte dei Conti, sezione giurisdizionale del Lazio, 30.3.98 n. 35; Corte dei Conti, sezione giurisdizionale del Piemonte, 27.5.97 n. 295).
Alla luce di quanto fin qui detto, il colpevole del danno sarà - presumibilmente - tenuto al rifondere l’importo delle sanzioni pecuniarie inflitte dall’INPS alla scuola. A meno che non riesca a dimostrare che il ritardo sia stato dovuto a cause oggettive a lui non imputabili o, quantomeno, riconducibili a lui solo parzialmente.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Corriere della Sera” 13 novembre 1998, inserto Corriere Scuola.

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