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Licenziamento

ANNULLAMENTO DEI LICENZIAMENTI PER CHI HA 40 ANNI DI SERVIZIO

Sono sempre più numerosi i giudici del lavoro che, in tutta Italia, dispongono l’annullamento dei licenziamenti intimati al personale della scuola ai sensi dell’art. 72 comma 11 del dl 112/2008, al solo raggiungimento dei quaranta anni di servizio, ordinando all’Amministrazione scolastica il trattenimento in servizio del dipendente sino al compimento dell’età pensionabile (cfr. Trib. Milano, 9.2.2010; Trib. Firenze, 18.12.2009; Trib. Roma 25.3.2010; Trib. Livorno 12.5.2011 n. 314; Trib. Pistoia 9.5.2011; Trib. Brindisi 22.5.2011 n. 1969; Trib. Arezzo 1.6.2011 n. 605).
Secondo l’orientamento prevalente, la risoluzione del rapporto di lavoro con il personale che abbia raggiunto l’anzianità contributiva massima di 40 anni, prevista dalla norma in esame, costituisce espressione di una facoltà dell’amministrazione, non già di un obbligo sulla stessa gravante, dovendo essa essere pertanto esercitata nel rispetto sia dei “limiti generali della correttezza e buona fede che presidiano l’esecuzione di qualsiasi contratto, ivi compreso quello di lavoro dei pubblici dipendenti”, sia dei “principi costituzionali dell’imparzialità e correttezza dell’azione amministrativa imposti dall’art. 97 Cost.” (in argomento si vedano, tra le altre, Cass. SS.UU., 26.6.2002 n. 9332, nonché Cass. Sez. Lav. 14.4.2008, n. 9814).
Tale conclusione si impone in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina di riferimento, e del tenore letterale della disposizione, avuto riguardo all’espressione utilizzata: “possono … risolvere unilateralmente … il rapporto di lavoro e il contratto individuale”, rivelatrice della discrezionalità sottesa al potere di licenziamento e dell’esigenza di un adeguato contemperamento dei contrapposti interessi; nonché avuto riguardo alle stesse circolari attuative adottate successivamente in materia, chiaramente indicative di limiti stabiliti dall’Amministrazione ai fini del corretto esercizio del potere in questione. La Circolare n. 10/2008 della Presidenza del Consiglio dei Ministri; la successiva Circolare n. 4 del 16.9.2009 della Presidenza del Consiglio dei Ministri; la Direttiva n. 13 del 2.2.2009 prevedono infatti criteri orientativi e limitativi della discrezionalità sottesa all’esercizio del potere di recesso unilaterale.
Quei criteri generali vincolano l’amministrazione e devono necessariamente presiedere all’esercizio del potere di licenziamento, ai fini del rispetto dei canoni di correttezza e buona fede nella gestione del rapporto lavorativo in essere con il proprio personale. In virtù dei limiti così prefissati, il licenziamento – anche al raggiungimento dei quaranta anni di anzianità contributiva - necessita di ragionevole giustificazione, pertinente alla concreta e specifica situazione presa in esame. In particolare, l’amministrazione è tenuta a prendere in considerazione l’interesse del lavoratore, al fine di evitare che il diritto al posto di lavoro, peraltro in un ambito caratterizzato da stabilità del rapporto ed oggetto di garanzia costituzionale, venga sacrificato definitivamente in mancanza di obiettive e concrete ragioni, non estrinsecate nell’atto.
Giova, in proposito, riportare le considerazioni espresse dalla Corte Costituzionale, che, anche in epoca più risalente, ha avuto modo di affermare che l’anticipazione obbligatoria del pensionamento rischia di imporre una condizione di emarginazione, di disperdere capacità professionali acquisite, senza dimenticare che il cittadino, nel luogo di lavoro, dove si svolge tanta parte della vita non percepisce solo retribuzione contro prestazione, ma afferma e sviluppa la sua personalità. La natura e gli effetti del pensionamento obbligatorio richiedono perciò che detta misura - perché non appaia discriminatoria ed arbitraria – si prospetti come obiettivamente non sostituibile con soluzioni fondate sul consenso dei singoli interessati e sia determinata da situazioni tali da renderla indispensabile (cfr. Corte Cost., sentenza n. 60/1991; in senso conforme, n. 153/1993).
Questa interpretazione è l’unica compatibile anche con i principi di diritto comunitario concernenti il divieto di discriminazione in materia di lavoro. La Corte di Giustizia ha ricordato come il divieto di discriminazione basata sull’età previsto dalla Direttiva CE 2000/78 costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi comunitari in materia di promozione dell’occupazione, precisando che, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate, secondo la situazione degli Stati membri. E’ quindi essenziale distinguere tra le disparità di trattamento che sono giustificate (in particolare, da obiettivi legittimi di politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale), e discriminazioni vere e proprie, che devono essere vietate (sentenza della Grande Sezione del 19.1.2010). La stessa Corte di Giustizia ha più volte escluso che eventuali considerazioni di bilancio possano di per sé giustificare una discriminazione in base all’età dei lavoratori.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 14 del 2 - 15 settembre 2011

Commento giurisprudenziale

MALATTIA, NON LICENZIABILE CHI SI ALLONTANA DA CASA
(Le uscite per svolgere attività fisica, prescritta dal medico, sono autorizzate)

E’ illegittimo il licenziamento del dipendente assente dal lavoro per malattia, che durante il periodo di assenza si sia allontanato dalla propria abitazione per fare del moto e svolgere le attività ordinarie della vita quotidiana, seguendo le prescrizioni del medico curante. Così ha deciso la Corte di Cassazione nella sentenza 21 marzo 2011, n. 6375, accogliendo le doglianze del lavoratore che si era visto dapprima contestare un comportamento incompatibile con la verosimile sussistenza dello stato patologico e una condotta pregiudizievole per un buono e rapido recupero dell’integrità ed efficienza fisica, quindi intimare il licenziamento. La Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del rapporto e al risarcimento del danno.
La sentenza conforta l’uniforme orientamento già esistente sul punto che ha portato più volte la Cassazione a statuire che l’espletamento di altra attività da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione, allorché l’attività praticata risulti di per sé indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltreché dimostrativa del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l’espletamento di una attività ludica o lavorativa (cfr. Cass., sez. lav., 21.4.2009, n. 9474; Cass. 24.4.2008, n. 10706; Cass, 19.12.2006, n. 27104). Si tratta di un’applicazione del principio generale consolidato in giurisprudenza secondo cui il lavoratore deve comportarsi secondo correttezza e buona fede durante tutto lo svolgimento del rapporto, e quindi anche durante la malattia. A titolo esemplificativo, la Cassazione ha riconosciuto legittimo il licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione al ginocchio.
Al contrario, nel caso in esame, il lavoratore con la proprio condotta non aveva dato vita ad alcun pericolo di aggravamento delle sue condizioni di salute o di ritardo nella guarigione, ma al contrario, avendo seguito le prescrizioni del medico curante, aveva favorito una pronta guarigione.
Motivi in fatto e in diritto della decisione
Il lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli a seguito ad una contestazione disciplinare nella quale gli era stato addebitato di avere tenuto un comportamento incompatibile con la verosimile sussistenza dello stato patologico denunciato come conseguente ad un infortunio occorso sul lavoro, oppure e comunque di avere tenuto un comportamento pregiudizievole per un buono e rapido recupero della integrità ed efficienza fisica.
Il medesimo chiedeva che venisse dichiarata l'illegittimità del licenziamento e condannato il datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento del danno. Infatti, numerose certificazioni mediche avevano accertato in più occasioni e sedi lo stato di invalidità del lavoratore, e avevano attestato anche il diligente sottoporsi del paziente a terapie orientate a favorirne la guarigione. Inoltre, il medico aveva confermato di avere prescritto al dipendente, in particolare nell'ultimo periodo della sua astensione lavorativa, di compiere del movimento e, in particolare, di camminare: non doveva quindi discutersi circa l'appropriatezza o meno di detta prescrizione terapeutica, quanto rilevarsi, rispetto al fatto pacifico che il lavoratore era stato visto mentre compiva delle uscite dalla propria abitazione pur essendo in infortunio, che tali uscite erano state ispirate da un parere del medico curante.
Il datore di lavoro aveva solo asserito e non provato dubbi riguardo alla vicenda, senza così assolvere l'onere della prova gravante sul datore di lavoro in materia di giustificazione del licenziamento.
In particolare, il datore di lavoro sosteneva – a torto – che una volta provata l'attività svolta durante il periodo di malattia dai lavoratore, spettasse a quest'ultimo provarne la compatibilità con la malattia impeditiva dell'attività lavorativa, risultandone altrimenti l'assenza ingiustificata. E che il lavoratore, una volta verificato, anche a seguito delle direttive, terapeutiche del suo medico curante, di poter svolgere una vita normale, avrebbe dovuto evitare di sollecitare ulteriori certificazioni di inabilità al lavoro e quanto meno rendere nota tale situazione all'ente previdenziale e al datore di lavoro.
In realtà, secondo al Cassazione, ciò non basta a provare una violazione disciplinare a fondamento del licenziamento intimato. In particolare, la malattia posta a giustificazione dell'assenza del lavoratore aveva trovato ampio riscontro non solo nelle certificazioni mediche relative, provenienti anche dall'Inail, ente previdenziale pubblico, ma anche in puntuali esami strumentali corredati da analitiche diagnosi.
Riguardo all'addebito al lavoratore di avere tenuto una condotta contrastante con le esigenze terapeutiche e di un rapido recupero, si osserva in via principale e assorbente o che nessun addebito al riguardo poteva essere mosso al lavoratore che si era adeguato alle prescrizioni del suo medico curante. Rispetto a tale motivazione - e tenuto anche presente che dalle indagini investigative richieste dal datore di lavoro non era emerso lo svolgimento di attività lavorative ma la ripresa di alcune attività della vita privata (spostamenti in città a piedi e in auto per acquisti e altro), cioè di attività di una gravosità di cui non è evidente la comparabilità a quella di un'attività lavorativa a tempo pieno - non può ritenersi che sussistesse l'onere per il lavoratore di provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all'attività lavorativa. Nè, il datore di lavoro risulta avere fornito – com’era suo onere - la prova di una natura degli aspetti di illogicità e malafede nel comportamento del lavoratore.

Anna Nardone

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 10 del 13 - 26 maggio 2011

 

Commento giurisprudenziale

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO, FA SCATTARE IL RISARCIMENTO
(Necessaria la contestazione disciplinare in cui vengono esplicitati i motivi di fatto e di diritto)

Il dirigente autore dell’illegittimo licenziamento deve restituire all’amministrazione le somme che la stessa ha dovuto versare al dipendente ingiustamente licenziato a titolo di risarcimento del danno – posto che quell’obbligo risarcitorio rappresenta per l’amministrazione un danno ingiusto, esclusivamente addebitabile al dirigente che ha mancato di seguire le procedure previste dalla legge in materia di licenziamento.
Così decide la Corte dei Conti, sezione Lazio, n. 1916 del 11.10.2010, condannando il responsabile a ripagare l’amministrazione del danno erariale così patito.
La vicenda
Un dipendente pubblico veniva licenziato a mezzo lettera dopo la contestazione di alcune assenze ritenute ingiustificate. A seguito di ricorso presentato dal medesimo, il Tribunale del lavoro dichiarava l’illegittimità del licenziamento, ordinando all’amministrazione la reintegra del dipendente, e condannandola a risarcire il danno subito da questi in misura pari alle retribuzioni globali maturate dalla data di licenziamento, oltre che alla regolarizzazione della posizione contributiva, con interessi, rivalutazione e spese legali.
Dalla vicenda era derivato un rilevante danno alle finanze dell’amministrazione, costretta a sopportare, per le modalità palesemente illegittime del licenziamento, le spese giudiziali. Poiché tali oneri costituivano un pregiudizio ingiusto per la medesima, in quanto erano riconosciuti a titolo di risarcimento danni, mentre non sarebbero stati sostenuti se fossero state regolarmente seguite le procedure previste dalla legge in materia di licenziamento, andavano addebitati al dirigente autore del licenziamento contra legem.
Motivi della decisione
Nella specie, il giudice evidenziava la condotta illegittima del dirigente, viziata da macroscopiche irregolarità che emergevano palesemente dai fatti: sulla base della semplice rilevazione dell'assenza dal lavoro, comunicava al dipendente l'avvenuto licenziamento. Invero, il "licenziamento disciplinare" rappresenta la più grave delle sanzioni disciplinari che il datore di lavoro può comminare a seguito di una condotta colposa o, comunque, inadempiente del lavoratore rispetto agli obblighi di diligenza ed obbedienza dello stesso, rappresentando una causa di estinzione del rapporto di lavoro.
Al riguardo, le norme in materia di lavoro privato, così come recepito e richiamato nella disciplina del "pubblico impiego privatizzato" impone, ai fini della legittimità dell'irrogazione del licenziamento disciplinare, l'osservanza di diverse garanzie procedurali e di contenuto .
La prima condizione di efficacia del licenziamento è costituita dall'atto di contestazione disciplinare in cui vengono illustrati in modo dettagliato i motivi posti alla base della decisione e che va preventivamente comunicato al lavoratore (Cass., sez. lav., 20 luglio 2007, n. 16132; 21 giugno 1988, n. 4240). Ulteriore e fondamentale requisito previsto ai fini della regolarità, formale e sostanziale, del licenziamento disciplinare è l’"immediatezza" della contestazione (Cass. 21 dicembre 2000, n. 1605).
L’amministrazione – o meglio, il dirigente - nella vicenda mostrava di ignorare del tutto l'importanza delle regole poste dalla normativa a tutela della stabilità del posto di lavoro pubblico.
In primo luogo, ometteva di effettuare la preventiva contestazione scritta dell'addebito nei termini previsti, risultando così viziato già il primo atto della procedura; in secondo luogo non risultava rispettato l'onere di convocazione, posto che il dirigente non solo non convocava il lavoratore, ma non faceva trascorrere neanche il termine di legge tra la contestazione dei fatti e l'irrogazione del licenziamento.
Dunque erano macroscopiche le irregolarità e palese la violazione delle regole che disciplinano la pur delicata materia del licenziamento da cui derivava la condanna dell’amministrazione pubblica a risarcire il danno subito dal ricorrente.
Appare evidente che, qualora le procedure previste dalla disciplina di settore per il licenziamento fossero state correttamente seguite, non vi sarebbe stato alcuna soccombenza in giudizio dell’amministrazione, con la conseguenza che nessuno degli obblighi risarcitori le sarebbe stato addebitato.
Quanto al profilo psicologico, la colpa grave del dirigente consisteva proprio nel non aver usato i comuni principi di diligenza e professionalità nella gestione della vicenda, finendo così per causare all’amministrazione un danno di rilevante entità. In particolare, la giurisprudenza ha sostenuto che l'elemento della gravità della colpa può essere individuato nella volontà di ottenere il risultato progettato nonostante la presenza di avvertimenti o segnali contrari provenienti da altri organi, ovvero da regole preesistenti, determinate da chiari principi normativi o precisi indirizzi giurisprudenziali consolidati in senso sfavorevole rispetto alle iniziative da assumere (SS.RR, n. 5/A del 3 marzo 1999).
Nel caso di specie, proprio il carattere evidente delle violazioni in questione contribuiva ad aggravare la condotta del dirigente, che non poteva ignorare l'esistenza di tali fondamentali regole: come ricordato, il medesimo non poneva in essere i necessari atti nei termini di legge; non sentiva il lavoratore a sua difesa né gli notificava tempestiva contestazione scritta, limitandosi a comunicare all'interessato mediante semplice lettera la decisione relativa al licenziamento.
Era d’altronde evidente il profilarsi degli ulteriori requisiti che giustificano l’avvio di una azione di responsabilità per danno erariale: l'esistenza del rapporto di servizio, con grave violazione degli obblighi connessi, il nesso tra il comportamento del dirigente così come descritto e l'evento lesivo e, tenuto conto della natura e della gravità degli illeciti, l'elemento psicologico della colpa grave.
Per tali motivi il dirigente doveva essere condannato al pagamento in favore dell’amministrazione delle somme che la stessa aveva dovuto sborsare a titolo di risarcimento in favore del dipendente illegittimamente liquidato.

Anna Nardone
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 21 del 10 - 23 dicembre 2010

 

Commento giurisprudenziale

SECONDO LAVORO, SENZA L’OK SI RISCHIA IL LICENZIAMENTO
(Il versamento delle cifre incassate per attività non autorizzate non ha natura sanzionatoria)

Svolgere una seconda attività senza autorizzazione può costare il posto di lavoro. Inoltre, l'obbligo di versamento all’amministrazione di appartenenza del compenso dovuto per prestazioni svolte in dispregio del divieto dei dipendenti pubblici di svolgere incarichi retribuiti che non siano stati autorizzati, non ha natura di sanzione disciplinare e non necessita di una previa autonoma contestazione.
Infatti la legge prevede, nella specie, la sussistenza di una autonoma responsabilità disciplinare e di conseguenti sanzioni a carico del dipendente, il che porta ad escludere che l'obbligo di versamento del compenso dovuto per le prestazioni svolte in violazione del divieto sia esso stesso configurabile come sanzione disciplinare; oltre a ciò, la stessa legge impone l’obbligo di tale versamento in primis all'erogante (ossia a un soggetto estraneo al rapporto lavorativo) e, solo in difetto, al lavoratore che lo ha percepito. Così decide la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza del 26 marzo 2010, n. 7343.
Peraltro, la medesima Cassazione, in altra precedente pronuncia, ha avuto occasione di chiarire che neppure il licenziamento intimato al dipendente che si trovi in situazione di incompatibilità ha natura sanzionatoria o disciplinare, essendo una mera diretta conseguenza della perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati "ab origine", avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro. Infatti, in materia di pubblico impiego, la disciplina dell'incompatibilità prevede che l'impiegato che si trovi in situazione di incompatibilità venga diffidato a cessare da tale situazione e che, decorsi quindici giorni dalla diffida, decada dall'incarico (Cass. civ. Sez. lavoro, 21 agosto 2009, n. 18608.)
La vicenda
Un dipendente pubblico impugnava il licenziamento intimatogli per avere espletato attività senza autorizzazione, siccome negatagli dall’Amministrazione, sul rilievo che il diniego era intervenuto quando ormai era decorso il termine di 30 giorni dalla richiesta di autorizzazione, onde su quest'ultima si era formato il silenzio assenso e, per conseguenza, i successivi provvedimenti dell'Amministrazione dovevano considerarsi illegittimi.
La Corte di Cassazione, definitivamente pronunciando, accoglie le ragioni dell’Amministrazione, sotto il profilo della legittimità del recesso e della condanna del dipendente al pagamento di quanto percepito per effetto dell'attività non autorizzata, conseguenza automatica dall'accertata illegittimità del comportamento del lavoratore e non autonoma sanzione disciplinare soggetta alle procedure conciliative.
Motivi della decisione
La Cassazione in via preliminare confuta l’asserzione del dipendente secondo cui gli atti della pubblica amministrazione datrice di lavoro concernenti il regime della incompatibilità avevano assunto natura di atti negoziali solo a partire dalle modifiche introdotte nel 1998, con la conseguenza che il silenzio assenso formatosi sull'istanza di autorizzazione avrebbe dovuto essere prima rimossa dall’Amministrazione, e, in difetto di ciò, il diniego opposto doveva ritenersi illegittimo, al pari del licenziamento, siccome fondato su tale provvedimento negativo.
Osserva la Corte che, già con l'emanazione del testo unico del pubblico impiego del 1993, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici era stato attratto nell'orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili non connessi al momento esclusivamente pubblico dell'azione amministrativa (cfr, Corte Costituzionale n. 309/2007), con la conseguenza che gli atti di gestione del rapporto lavorativo privatizzato restavano esclusi dalla disciplina propria dell'atto amministrativo, dovendo essere invece posti in essere con i poteri de privato datore di lavoro; con la conseguenza che in tema di incompatibilità, già nella vigenza del predetto testo unico, l'attività datoriale in relazione al rapporto di lavoro privatizzato, pur restando regolata dalla specifica disciplina disposta ex lege, non veniva più ad esplicarsi attraverso provvedimenti amministrativi, bensì restava nell'ambito dei comportamenti di gestione del rapporto di lavoro (cfr, Cass., nn. 967/2006; 18608/2009).
Da tanto deriva la piena legittimità del licenziamento motivato dalla violazione dei principi di incompatibilità e indipendenza, sottesi alla norma che preclude la prestazione di attività non previamente autorizzate.
Il Giudice risolve poi l’eccezione del ricorrente fondata sull'assunto che l’amministrazione avrebbe richiesto le somme percepite per l’incarico contestato a titolo di sanzione disciplinare senza alcuna contestazione, limitandosi ad affermare che il versamento di tali somme costituiva conseguenza automatica dell'accertata illegittimità del comportamento del lavoratore.
La Corte rileva che secondo il citato testo unico "I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. (...) In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalente”. L'affermato autonomo rilievo della responsabilità disciplinare ("ferma restando la responsabilità disciplinare") porta ad escludere, già sotto l'aspetto strettamente testuale, che l'obbligo di versamento del compenso dovuto per le prestazioni svolte in dispregio del divieto sia configurabile, come pretende il ricorrente, quale sanzione disciplinare; il che resta poi confermato dal fatto che l'obbligo di tale versamento è imposto in primis all'erogante (ossia a un soggetto estraneo al rapporto lavorativo) e, solo in difetto, al lavoratore che lo ha percepito.
Ne consegue che la richiesta di versamento dei compensi non necessita di una previa autonoma contestazione disciplinare ed è pienamente legittima.

Anna Nardone
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 14 del 3 - 16 settembre 2010

 

Commento giurisprudenziale

CONTRO IL LICENZIAMENTO RICORSO ENTRO 60 GIORNI
(Termine perentorio. La Cassazione: la decadenza impedisce anche il risarcimento del danno)

La mancata impugnazione del licenziamento nel termine di sessanta giorni previsto dalla legge preclude al dipendente non solo l’azione per la reintegra sul posto di lavoro, ma anche quella per ogni azione di risarcimento del danno. Così ha giudicato la Corte di Cassazione, Sezione lavoro, nella sentenza del 5 febbraio 2010, n. 2676. Peraltro, sul medesimo argomento, sono intervenute anche le Sezioni Unite della Cassazione con pronuncia del 14 aprile 2010 n. 8830, riconoscendo l’effetto di impedire la descritta decadenza all'impugnativa di licenziamento spedita per posta prima del decorso del termine decadenziale di sessanta giorni, benché pervenuta successivamente al datore di lavoro.
La vicenda
La vicenda riguardava alcuni dipendenti che impugnavano tardivamente – dopo, cioè, che era trascorso il termine di sessanta giorni previsto dalla legge - i rispettivi intimati licenziamenti, ritenuti illegittimi, per vedersi riconoscere la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione ed al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori o, in via subordinata, al risarcimento dei danni in base alle regole del diritto comune. I giudici di prime grado accertavano l’inammissibilità della domanda di annullamento del licenziamento e reintegra sul posto di lavoro, perché proposta fuori termine; accoglievano però l’azione risarcitoria promossa in via subordinata dai ricorrenti.
La Corte di Cassazione non ha però condiviso detta conclusione, giudicando che neppure l’ordinaria azione di risarcimento poteva essere validamente esperita al di fuori del termine di decadenza.
Motivi della decisione
La Cassazione non nasconde che secondo un indirizzo della medesima ormai risalente (cfr. Cass. sez. lav., 5.2.1985 n. 817; Cass. sez. lav., 24.6.1987 n. 5532; Cass. sez. lav., 2.3.1999 n. 1757) "la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi della L. n. 300 del 1970, conseguendo da ciò che, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall'impugnazione, è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali che governano questa azione, sempre che ne ricorrano (e siano dal lavoratore allegati) i relativi presupposti" (Cass. sez. lav., 2.3.1999 n. 1757).
Secondo la Corte – e la giurisprudenza più recente - queste affermazioni meritano una attenta riconsiderazione.
Va in primo luogo considerato che il vigente ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale, del tutto diversa da quella ordinaria, i cui connotati di specialità e di imperatività mal si conciliano con una libertà di scelta per le parti tra regime ordinario e regime speciale. Nel quadro di questo speciale regime, il licenziamento deve essere necessariamente sorretto da specifiche e giustificate motivazioni; nel medesimo quadro, il legislatore ha previsto un termine breve di decadenza (sessanta giorni) per l'impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore a garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso del datore di lavoro, ritenendo tale certezza valore preminente rispetto a quello della legittimità del licenziamento.
Ne consegue che al lavoratore che non abbia impugnato, nel termine di decadenza suddetto (sessanta giorni), il licenziamento è precluso il diritto di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento stesso e di conseguire il risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali. Se tale onere non viene assolto dal lavoratore, peraltro, il Giudice non può conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune.
"La decadenza, infatti, impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, in quanto non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento. Poichè l'inadempimento (nella specie, recesso illegittimo) costituisce presupposto del risarcimento dovuto dal contraente inadempiente a norma dell'art. 1218 cod. civ. la impossibilità di tale accertamento esclude la possibilità di riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro l'obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore [...]. L'azione risarcitoria di diritto comune, dunque, può essere esercitata, anche in caso di decadenza, soltanto in via residuale per far valere profili di illegittimità del licenziamento che siano diversi da quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, individuali o collettivi. Nell'area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa speciale, invece, l'azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata, in via alternativa, soltanto previa tempestiva impugnazione del licenziamento" (Cass. sez. lav., 21.8.2006 n. 18216).
Da siffatto orientamento, fatto proprio da numerose altre sentenze (Cass. sez. lav., 9.3.2007 n. 5545; Cass. sez. lav., 14.5.2007 n. 11035; Cass. Sez. lav., 4.5.2009 n. 10235), ritiene la Corte di non doversi discostare, dovendosi pertanto ritenere che la decadenza impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento.
In particolare, sul piano della responsabilità contrattuale, poichè l'inadempimento (nella specie, il dedotto licenziamento illegittimo) costituisce presupposto del risarcimento dovuto secondo la disciplina ordinaria del codice civile, l’impossibilità di accertare tale inadempimento esclude la possibilità di riconnettere ad esso l'obbligo di risarcimento in favore del lavoratore.
A questi principi – fatti propri dalla Cassazione - non si sono attenuti i giudici di prime cure, avendo riconosciuto ai lavoratori il diritto al risarcimento del danno secondo le norme comuni, pur essendo pacifico che erano decaduti dal diritto di impugnare il licenziamento.

Anna Nardone
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 11 del 27 maggio - 2 giugno 2010

 

IDONEO ALLA DOCENZA: NO AL LICENZIAMENTO

Anche il personale docente non di ruolo ha diritto ad essere utilizzato in mansioni collaterali all’insegnamento compatibili con il suo stato di salute; è quindi illegittimo il licenziamento dell’insegnante non di ruolo ritenuto non più idoneo all’insegnamento per ragioni di salute. Così ha deciso il 17.5.2005 il Tribunale del Lavoro di Taranto, ordinando l’immediata riammissione in servizio della docente.
La vicenda. L’interessata è docente di educazione fisica non di ruolo – più precisamente, mantenuta in servizio fino all’immissione in ruolo, ai sensi dell’art. 43, a l. n. 270/1982. Affetta da una grave patologia, la medesima si è sottoposta alle visite di legge da parte delle commissioni e dei collegi competenti, risultando totalmente e permanentemente inabile a svolgere l’attività docente, ma idonea a mansioni collaterali all’insegnamento. Pertanto, ha presentato istanza per essere utilizzata in compiti collaterali all’insegnamento, ai sensi di legge. L’amministrazione di appartenenza ha però respinto la domanda motivando con l’argomento che lo stato giuridico della docente – non ancora immessa in ruolo – fosse incompatibile con l’istituto della utilizzazione in compiti collaterali all’insegnamento; e in conseguenza di ciò ha disposto la cessazione dal servizio per superamento del periodo massimo di malattia contrattualmente previsto. L’insegnante ha quindi adito il Tribunale del Lavoro chiedendo la tutela immediata delle proprie ragioni, adducendo non solo argomentazioni relative alla fondatezza giuridica della propria domanda, ma anche riferite al pericolo di danno economico grave e irreparabile cui il licenziamento la esponeva: in primo luogo, alla circostanza che la medesima non risulta in possesso nemmeno dei requisiti per ottenere il trattamento di quiescenza. Il giudice – con ordinanza 1.5.2005 - ha accolto le istanze della docente ordinando che venisse immediatamente riammessa in servizio e utilizzata in mansioni collaterali all’insegnamento compatibili con il suo stato di salute, tenuto altresì conto che la situazione soggettiva di cui si è chiesta la tutela si aggancia direttamente e concretamente a beni interessi di rilievo primario (diritto al lavoro in senso ampio, funzione alimentare della retribuzione); che la ricorrente trae dal proprio lavoro l’unica fonte di sostentamento per sé e la propria famiglia; che se fosse privata della retribuzione non avrebbe altre entrate tali da consentirle di condurre una esistenza libera e dignitosa.
Le motivazioni. Il Tribunale del lavoro di Taranto precisa, in primo luogo, che il nodo della questione riguarda la compatibilità dell’istituto dell’utilizzazione fuori ruolo e-o in compiti collaterali all’insegnamento, disciplinato dalla norma contrattuale in materia di assenze (art. 17, CCNL 2002/2005), con lo stato giuridico dell’insegnante ricorrente, insegnante non di ruolo. Ciò considerato che la stessa amministrazione scolastica non contesta la concreta possibilità di una diversa utilizzazione della ricorrente presso altri istituti scolastici, bensì l’impossibilitò di un suo collocamento fuori ruolo e utilizzazione in altri compiti non avendo il suo rapporto stabilità. A tal fine il giudice evidenzia come è la stessa contrattazione collettiva nazionale (art. 19, CCNL) a disporre che la posizione giuridica della ricorrente - docente non di ruolo – è assimilabile, nei limiti della durata del rapporto di lavoro, a quella del personale assunto a tempo indeterminato ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di ferie, permessi e assenze. Da tanto il Tribunale di Taranto deduce che debba ritenersi applicabile anche la su citata norma contrattuale in materia di assenze (art. 17, CCNL), la quale appunto dispone che il personale docente dichiarato inidoneo alla sua funzione per motivi di salute può a domanda essere collocato fuori ruolo e/o utilizzato in altri compiti tenuto conto della sua preparazione culturale e professionale. Tantopiù che il tenore letterale della norma, che propone anche l’ipotesi disgiuntiva - alternativa (o), depone per la sua compatibilità con lo status del personale non di ruolo: la disposizione, cioè, prevedrebbe sia il collocamento fuori ruolo e l’utilizzo in altri compiti (presupponendo quindi un rapporto stabile, di ruolo); sia il collocamento fuori ruolo o, in alternativa, l’utilizzo in altri compiti (compatibile anche con uno stato giuridico non di ruolo). A ciò s’aggiunga, osserva il giudice, che la norma contrattaule sulla disciplina delle assenze è stata pacificamente ritenuta applicabile al rapporto (non di ruolo) della ricorrente dalla stessa amministrazione scolastica, che la cita quale fondamento giuridico del licenziamento della ricorrente per superamento del periodo massimo di malattia. Quanto infine alla conciliabilità dell’istituto dell’utilizzazione in compiti collaterali all’insegnamento con lo stato giuridico della ricorrente, con particolare riguardo al profilo della durata del rapporto di lavoro, il giudice osserva che le peculiarità della categoria di appartenenza dell’insegnante - mantenuta in servizio fino all’immissione in ruolo ai sensi dell’art. 43, l. n. 270/1982 - sembrano comparabili a quelle dei docenti a tempo indeterminato. Invero, escluso il solo dato formale della mancanza di titolarità di cattedra, dal punto di vista della durata del rapporto di lavoro le due prospettive appaiono del tutto analoghe, tant’è che si parla spesso di personale non licenziabile: in tal senso si è orientata anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato. Dunque, conclude il Tribunale, se il rapporto di lavoro della ricorrente è assimilabile, quanto alla durata, ad un ordinario rapporto a tempo indeterminato, appare vieppiù plausibile ritenere che sia integralmente applicabile la disciplina in materia di assenze – ivi compreso l’istituto dell’utilizzo in compiti collaterali compatibili con lo stato di salute – non ostandovi neppure le limitazioni della durata del rapporto che invece potrebbero opinarsi per il personale a tempo determinato.

Anna Nardone

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 15 del 30 settembre – 13 ottobre 2005

 

PROVA E PREAVVISO PER IL LICENZIAMENTO

Poiché la stessa normativa di settore prevede che il periodo di prova del pubblico dipendente assunto in ruolo tramite concorso sia destinato a concludersi o con la conferma in ruolo o con la risoluzione del rapporto di lavoro, non vi è necessità che il dipendente, già a conoscenza della data di conclusione del periodo di prova che riguarda il suo rapporto di lavoro, debba essere ulteriormente preavvisato dei possibili esiti della prova. Infatti, nell’ambito del periodo di prova non è individuabile un procedimento autonomo di risoluzione del rapporto, e quindi non può essere accolta la pretesa del dipendente di intervenire presso l’amministrazione, per far valere i propri interessi e le proprie ragioni, prima che vanga assunta la decisione sull’esito del periodo di prova. Il giudizio deve infatti essere emesso dall’organo competente, senza che possa concorrervi l’apporto dell’interessato.
Così ha deciso il Consiglio di Stato con una recente pronuncia (Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2005 n. 6053), che peraltro ribadisce un’opinione più risalente del medesimo giudice.

La vicenda

Il ricorrente, immesso in ruolo quale vincitore di concorso, aveva impugnato innanzi al TAR competente il provvedimento con il quale l’amministrazione aveva disposto la risoluzione del suo rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova svolto dopo l’assunzione – principalmente per aver l’amministrazione omesso di avviare un contraddittorio con l’interessato, prima dell’adozione del licenziamento. Il tribunale territoriale aveva respinto il ricorso, ritenendo infondati tutti i motivi di illegittimità prospettati in quella sede. L’originario ricorrente ha quindi proposto appello avverso la predetta decisione, ritenendola erronea e lesiva dei propri interessi. Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sul predetto ricorso in appello, lo ha rigettato dichiarando la piena legittimità del licenziamento disposto nei confronti del ricorrente, e affermando il principio esposto.

Motivi della decisione

Il collegio ritiene utile, ai fini del decidere, muovere dall’analisi della disposizione di cui nella specie si è fatta applicazione. Richiama, quindi, l’art. 10 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 che così precisa: “Il periodo di prova ha la durata di sei mesi…….Compiuto il periodo di prova, l’impiegato consegue la nomina in ruolo con decreto del Ministro, previo giudizio favorevole del Consiglio di Amministrazione, fondato anche sulle relazioni dei Capi dei servizi ai quali è stato applicato e sull’esito dei corsi eventualmente frequentati. Nel caso di giudizio sfavorevole il periodo di prova è prorogato di altri sei mesi, al termine dei quali, ove il giudizio sia ancora sfavorevole, il Ministro dichiara la risoluzione del rapporto di impiego con decreto motivato. In tal caso spetta all'impiegato una indennità pari a due mensilità del trattamento relativo al periodo di prova.
Qualora entro tre mesi dalla scadenza del periodo di prova non sia intervenuto un provvedimento di proroga ovvero un giudizio sfavorevole, la prova si intende conclusa favorevolmente”. La procedura così delineata dal legislatore si articola, dunque in un primo semestre durante il quale la capacità e l’idoneità del dipendente allo svolgimento dei compiti che gli sono stati affidati vengono valutati dall’amministrazione con un giudizio volto ad apprezzare l’attitudine ed il grado di operosità dimostrati, giudizio che prescinde da specifici fatti di servizio. In caso di valutazione negativa il semestre di prova viene prolungato di altri sei mesi (e dunque uno spazio temporale complessivo di un anno) al termine dei quali viene reso il giudizio finale. La norma fissa poi un termine di tre mesi entro il quale porre in essere il detto giudizio finale; e la scadenza del termine in discorso senza che sia intervenuto un espresso provvedimento negativo comporta la conferma del rapporto di lavoro. Si tenga presenta che nel periodo di servizio valido ai fini che qui interessano non sono valutabili le assenze dal servizio, quali che siano le cause che le hanno determinate, potendosi ricavare una valutazione di superamento o meno della prova in corso solo dal servizio effettivo.Secondo il Consiglio di Stato, nel caso sottoposo al suo esame, la procedura seguita dall’Amministrazione appare pienamente conforme alla disposizione su riportata: il primo periodo di prova dopo l’assunzione non era stato superato dall’interessato, e quindi era stato prorogato; il provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro era poi stato adottato nel previsto termine trimestrale.
Alle suesposte considerazioni in fatto e in dritto, il giudice, per ragioni di mera completezza, aggiunge che è vero che il preavviso di cui agli articoli 7 e 8 della legge n. 241 del 1990 (legge sul procedimento amministrativo) consente al dipendente, per il tramite del principio del contraddittorio, una efficace tutela delle ragioni e contestualmente di fornire all'amministrazione elementi di conoscenza utili all'adozione di un atto potenzialmente lesivo. Ciò non di meno, se la specifica normativa di settore prevede che il periodo di prova sia destinato a concludersi o con la conferma in ruolo o con la risoluzione del rapporto di lavoro, non vi è necessità che il dipendente, già a conoscenza delle date di conclusione del periodo di prova che riguardano il suo rapporto di lavoro, debba essere ulteriormente avvisato dei possibili esiti dello specifico procedimento. Ed invero, nell’ambito del periodo di prova non è individuabile un procedimento autonomo di risoluzione del rapporto e la pretesa di introdurre un fase di contraddittorio, destinata a permettere al dipendente di far valere i propri interessi e le proprie ragioni, non è compatibile con la natura dell’istituto in quanto il giudizio sull’esito della prova deve essere emesso dall’organo competente, senza che possa concorrervi l’apporto in contraddittorio del dipendente in prova.

Anna Nardone

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 20, 9 dicembre 2005 - 12 gennaio 2006

 

LICENZIAMENTO SENZA PREAVVISO PER TRUFFA

E’ legittimo il licenziamento senza preavviso del pubblico impiegato, disposto dall’amministrazione quale sanzione disciplinare, allorché il medesimo, nell’esercizio delle sue funzioni, abbia commesso un falso per favorire un conoscente, mettendo a rischio l’immagine dell’amministrazione con una condotta manifestamente disdicevole e palesemente lesiva della trasparenza e credibilità dell’azione amministrativa. Così si pronuncia il Consiglio di Stato con sentenza n. 5243/2005, approvando la scelta sanzionatoria della pubblica amministrazione nei confronti del proprio dipendente.

La vicenda

Un pubblico dipendente aveva contraffatto alcuni documenti nel tentativo di favorire un conoscente. In conseguenza dell’accertamento di tale condotta, il medesimo era stato licenziato per giusta causa a seguito di procedimento disciplinare avviato dall’amministrazione di appartenenza; successivamente, in relazione a quei fatti, il dipendente era stato altresì condannato in sede penale per il reato di truffa - per avere, con artifici e raggiri posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore l’amministrazione, procurandosi, altresì, un ingiusto profitto. L’impiegato ha adito la giustizia amministrativa chiedendo l’annullamento del provvedimento di licenziamento senza preavviso adottato nei suoi confronti, adducendo, in primo luogo, che il medesimo fosse affetto da vizio di procedimento, per non aver l’amministrazione di servizio sospeso il procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti durante la pendenza del giudizio penale iniziato per la medesima condotta criminosa; in secondo luogo, da difetto di presupposti e motivazione, per essere l’amministrazione illegittimamente venuta meno all’onere di motivazione, specie in ordine al rapporto di proporzione tra la sanzione applicata e la gravità degli addebiti contestati, essendo l’apprezzamento di detta proporzionalità una valutazione discrezionale. L’amministrazione di appartenenza del ricorrente, parte resistente nel giudizio, ha eccepito al contrario la piena legittimità del proprio operato sotto tutti i profili contestati. Il Consiglio di Stato, con l’affermazione del principio su esposto, accoglie le ragioni dell’amministrazione, sentenziando la conformità alla legge del licenziamento impugnato in relazione all’aspetto formale e a quello più sostanziale.

Motivi della decisione

Il giudice amministrativo, muovendo dall’esame dei rilievi più procedurali e formali sollevati dal ricorrente, osserva in primo luogo che il procedimento disciplinare che ha portato al licenziamento per giusta causa dell’impiegato ricorrente era stato avviato e concluso dall’amministrazione di appartenenza prima che il medesimo fosse rinviato a giudizio – giudizio penale conclusosi in primo grado con una condanna per tentativo di truffa aggravata ai danni di una pubblica amministrazione per avere – s’è detto – con artifici e raggiri posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore l’amministrazione, procurandosi, altresì, un ingiusto profitto. Per l’effetto di tali cadenze temporali, il medesimo procedimento sanzionatorio non avrebbe dovuto né tantomeno potuto essere sospeso per pendenza del giudizio penale, come invece sostenuto dal ricorrente; donde l’infondatezza del vizio di procedimento sollevato. Quanto alle eccezioni più sostanziali riferite al provvedimento di licenziamento impugnato dal dipendente, il Consiglio di Stato evidenzia che l’amministrazione si è limitata ad applicare le disposizioni della contrattazione collettiva vigente per effetto delle quali la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso si applica, in generale, per le tutte le violazioni intenzionali dei doveri, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; la norma elenca una serie di criteri sintomatici, utili ai fini di poter apprezzare la gravità delle violazioni e così scegliere le sanzioni più adeguate: intenzionalità del comportamento, grado di negligenza, imprudenza o imperizia dimostrate; rilevanza degli obblighi violati; responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente; grado di danno o di pericolo causato all’amministrazione, agli utenti o a terzi ovvero al disservizio determinatosi; sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riferimento al comportamento del lavoratore. Come sottolineato dal Consiglio di Stato, nel caso di specie l’amministrazione ha contestato all’interessato una serie di fatti (falsificazione di documenti per motivi del tutto personalistici, quali quelli di favorire un conoscente) che integrano una condotta di particolare gravità, tale da far venir meno il rapporto fiduciario e apparire proporzionata la conseguenza della risoluzione del rapporto di servizio comminata all’interessato. Si tratta di comportamenti frutto di una condotta intenzionale dell’incolpato, correlata alla violazione dei più elementari obblighi di fedeltà e correttezza propri del rapporto di lavoro pubblicistico; di comportamenti, in special modo, produttivi di un significativo pregiudizio per l’immagine dell’amministrazione stessa, dal momento che, di fronte all’opinione pubblica, appare manifestamente disdicevole e patentemente lesivo della trasparenza e credibilità dell’azione amministrativa il fatto che un pubblico dipendente, chiamato a svolgere istituzionalmente un’attività di interesse collettivo, abbia inteso invece favorire un conoscente, attraverso la mistificazione di documenti pubblici, procurando a sè un profitto. Secondo il Giudice, il licenziamento di cui è causa appare, quindi, supportato da motivazione sufficiente anche per quanto attiene alla proporzionalità della scelta sanzionatoria operata dall’amministrazione in relazione alla gravità dell’illecito commesso, e quindi immune da vizi anche dal punto di vista più sostanziale.

Anna Nardone

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 5,10- 23 marzo 2006

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