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Ordinamento giudiziario

 

Commento giurisprudenziale

PER VIOLENZA SESSUALE IL PROF NON DEVE RISARCIRE LO STATO
(L’insegnante condannato per abusi su minori non commette reato da pubblico ufficiale contro l’amminstrazione)

L’insegnante condannato per reati di violenza sessuali su alunne minori non deve risarcire lo Stato né per danno all’immagine, non trattandosi di un delitto commesso da un pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione, né per danno patrimoniale, avendo comunque reso a sua prestazione lavorativa, anche se “macchiata” dai reati commessi.
La vicenda
Un insegnante di educazione fisica di scuola media, durante le ore di lezione aveva commesso reiterati atti di violenza sessuale ai danni di alcune studentesse. Il medesimo era stato condannato in sede penale alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione per reato di violenza sessuale continuata ed aggravata dall’età delle vittime inferiore a 14 anni, e dall’aver commesso il fatto abusando della propria autorità di insegnante. Successivamente, l’amministrazione gli aveva comminato la sanzione del licenziamento senza preavviso.
La medesima amministrazione chiedeva ora all’insegnante un risarcimento del danno patrimoniali e non patrimoniali per condotta resa in violazione dei doveri di servizio e con dolo, in quanto penalmente illecita e lesiva dei doveri deontologici e di servizio gravanti sugli insegnanti.
Quanto al danno patrimoniale, le prestazioni lavorative contestuali alla commissione di un grave delitto non meritavano alcuna retribuzione. La condotta penale concretizzava non solo una violazione dei doveri di ufficio ma anche un inadempimento dell’obbligazione lavorativa di educazione e tutela psico-fisica dei minori affidati all’insegnante; per cui la retribuzione non poteva ritenersi dovuta e costituiva danno erariale.
Inoltre, la condotta penale aveva determinato anche un danno (non patrimoniale) all’immagine dell’amministrazione scolastica. La “particolare gravità della condotta” (posta in essere da un insegnante nei confronti di allieve di tenera età) aveva cagionato all’amministrazione scolastica un grave colpo alla sfera della personalità, dignità, integrità, credibilità e – più in generale – a tutta quella sfera di interessi costituzionalmente rilevanti attinenti all’esercizio della funzione educativa. Infatti, essendo l’istituzione scolastica tenuta, oltre all’istruzione, alla tutela del minore, i genitori effettuano le proprie scelte educative basandosi sulla qualità, sull’affidabilità e sulla stessa immagine della scuola (come istituzione e come singolo istituto) e del corpo insegnante.
La Corte dei Conti chiamata a decidere sulle domande di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conclude per il rigetto delle stesse.
Motivi della decisione
Quanto alla domanda di risarcimento di danno non patrimoniale, il Giudice precisa che il danno all’immagine azionato trova titolo nella commissione di un reato comune di atti sessuali su vittime minori di anni quattordici, benché aggravato dall’abuso della qualità di pubblico ufficiale, e non nella commissione di un delitto contro la pubblica amministrazione.
Secondo la legge, il risarcimento del danno all’immagine è limitato ai soli casi di danno derivante da delitti commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione, a seguito di una sentenza penale irrevocabile di condanna. Poiché nella concreta fattispecie risulta una sentenza irrevocabile ma per un reato comune di violenza sessuale (benché aggravato dall’abuso della qualità di pubblico ufficiale, di insegnante), l’azione di responsabilità per danno all’immagine risulta esercitata al di fuori dei casi previsti dalla legge. Secondo la Corte dei Conti – e la giurisprudenza prevalente - è ragionevole riconoscere il risarcimento di tale danno solo se derivante da delitti di pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione perché solo in tali reati il soggetto passivo del reato è la pubblica amministrazione, e quindi la sua immagine e il suo funzionamento ne sono necessariamente compromessi, mentre negli altri reati tale compromissione è indiretta ed eventuale.
Passando alla domanda di risarcimento del danno patrimoniale, nella specie la condotta illecita, cioè la commissione del reato di violenza sessuale ai danni delle alunne, è stata commessa in occasione dell’esercizio di funzioni pubbliche, nella qualità di insegnante di scuola media; inoltre, tale condotta è antigiuridica e colpevole, in quanto posta in essere in violazione dei doveri di legittimità e buon andamento nell’esercizio dell’azione amministrativa; vista la natura dolosa dei reati, sussiste anche il dolo della condotta.
Viceversa, non risulta nella concreta fattispecie l’esistenza di un danno patrimoniale, necessario ai fini della condanna.
La Corte dei Conti obietta che la mera violazione dei doveri di ufficio non consente una condanna al risarcimento del danno patrimoniale. Se il dipendente – in violazione dei suoi doveri pubblicistici di servizio – omette la sua prestazione lavorativa (ad esempio con false attestazioni di presenza, o con permessi di uscita concessi con abuso di ufficio) si ha un danno concreto ed attuale in relazione alla retribuzione corrisposta per il periodo di assenza ingiustificata. Viceversa, se nel corso del rapporto di lavoro – comunque reso – il soggetto viola i suoi doveri di ufficio, rendendo una prestazione inesatta, ciò non determina automaticamente che non spetti la retribuzione e che s determini un danno concreto ed attuale all’amministrazione. Quindi tale illecito trova sanzione in sede disciplinare o penale, ma non in sede risarcitoria.
Nella concreta fattispecie, il danno contestato sarebbe dato dalla violazione dei doveri di ufficio nell’adempimento della prestazione, non dall’omissione di quest’ultima, in quanto il reato è stato commesso in modo istantaneo e comunque senza interruzione della normale attività lavorativa di insegnamento, onde non vi è stata sottrazione di energie lavorative all’amministrazione: la violazione dei doveri di ufficio ha determinato una prestazione inesatta e danni a terzi ma non danno diretto all’ente, e quindi rileva a fini disciplinari e penali, ma non risarcitori. Pertanto, in relazione al danno patrimoniale, la domanda viene respinta per mancanza di danno erariale.

Anna Nardone

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 18 del 28 ottobre – 10 novembre 2011

 

Commento giurisprudenziale

TAR: “SONO ILLEGITTIMI I TAGLI ALLE CATTEDRE”
(Il Tribunale del Lazio boccia il Miur e l’Economia per “gravi vizi procedurali”)

Sono illegittime le disposizioni adottate dai ministri dell’economia e dell’istruzione relative agli organici del personale docente per gli anni scolastici 2009/10 e 2010/2011, che hanno previsto tagli per oltre 50.000 cattedre, per gravi vizi procedurali: i ministeri hanno eluso il parere delle commissioni parlamentari competenti, invece previsto dalla legge. Così decide il TAR Lazio, sez. III bis con sentenza del 14 aprile 2011 n. 3251, accogliendo l’azione di organizzazioni sindacali, amministrazione comunale, genitori, che sostenevano appunto il mancato rispetto, da parte dei ministeri interessati, delle procedure previste dalle norme in vigore.
Si apre ora una scenario complesso, nel quale l’unica certezza pare essere l’appello che l’amministrazione dell’istruzione proporrà contro la sentenza e il cui esito non è così scontato, anche se la condotta un po’ troppo semplicistica dei ministeri dell’economia e dell’istruzione – così come giudicata nella sentenza – sembra meritevole di censura. La conferma della la sentenza significherebbe per il Governo il crollo del piano di razionalizzazione del comparto scuola.
Nell’immediato, è prevedibile che i tagli ormai fatti rimangano confermati, e così quelli previsti per la fine dell’anno scolastico. Al più, per i docenti che hanno perso il posto rimane la possibilità di agire per il risarcimento del danno.
I ministeri coinvolti, da parte loro, potrebbe sanare l’irregolarità rilevata dal TAR e chiedere l’intervento delle Commissioni parlamentari. Da taluni si ipotizza che già nel prossimo decreto interministeriale relativo agli organici per il 2011/2012 venga richiesto il parere del Parlamento e che, nella stessa occasione, si chieda alla Commissioni di ratificare anche i due decreti contestati dal Tar.
FATTO e DIRITTO
I ricorrenti chiedevano al TAR Lazio l’annullamento dei decreti interministeriali n. 62/2009 e n. 55/2010 concernenti – rispettivamente - la determinazione degli organici del personale docente per gli anni scolastici 2009/2010 e 2010/2011. Lamentavano l’illegittimità della procedura seguita dai ministeri dell’economia e dell’istruzione nell’adottare i decreti citati, e così delle previsioni di organico in essi contenute.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio giudica fondate le doglianze dei ricorrenti.
Il giudice richiama le nome vigenti in materia, e, in primis, l’art. 22 della legge 448/2001, mai formalmente abrogato -: “le dotazioni organiche del personale docente delle istituzioni scolastiche autonome sono costituite sulla base del numero degli alunni iscritti, delle caratteristiche e delle entità orarie dei curricoli obbligatori relativi ad ogni ordine e grado di scuola, nonché nel rispetto di criteri e di priorità che tengano conto della specificità dei diversi contesti territoriali, delle condizioni di funzionamento delle singole istituzioni e della necessità di garantire interventi a sostegno degli alunni in particolari situazioni, con particolare attenzione alle aree delle zone montane e delle isole minori. 2. Il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca definisce con proprio decreto, emanato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, i parametri per l'attuazione di quanto previsto nel comma 1 e provvede alla determinazione della consistenza complessiva degli organici del personale docente ed alla sua ripartizione su base regionale”.
Quindi, l’art 2 del DPR 20 marzo 2009 n. 81 - recante “norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola” – che ha prescritto che le dotazioni organiche complessive siano definite annualmente sia a livello nazionale che per ambiti regionali tenuto conto degli assetti ordinamentali, dei piani di studio e delle consistenze orarie previsti dalle norme in vigore, in base: “a) alla previsione dell'entita' e della composizione della popolazione scolastica e con riguardo alle esigenze degli alunni disabili e degli alunni di cittadinanza non italiana; b) al grado di densita' demografica delle varie province di ciascuna regione e della distribuzione della popolazione tra i comuni di ogni circoscrizione provinciale; c) alle caratteristiche geo-morfologiche dei territori interessati e alle condizioni socioeconomiche e di disagio delle diverse realta'; d) all'articolazione dell'offerta formativa; e) alla distribuzione degli alunni nelle classi e nei plessi sulla base di un incremento del rapporto medio, a livello nazionale, alunni/classe di 0,40 da realizzare nel triennio 2009-2011; f) alle caratteristiche dell'edilizia scolastica”.
Quest’ultima disposizione nulla ha detto sulla natura e sugli aspetti procedimentali dell’atto di determinazione della dotazione organica.
Vero è che il DPR 81/2009 ha direttamente stabilito, con efficacia normativa, i parametri in base ai quali l’organico deve annualmente essere determinato, lasciando all’amministrazione la sola determinazione, alla luce dei detti parametri, delle dotazioni organiche e della relativa ripartizione fra le Regioni.
Tuttavia, ritenere che l’amministrazione possa prescindere, nel procedimento di determinazione delle dotazioni organiche complessive, dal parere delle commissioni parlamentari competenti espressamente previsto dall’art. 22 della legge 448/2001, introduce un’interpretazione ad effetto parzialmente abrogativo per ciò solo in contrasto con l’art. 22 cit, comunque non sostenibile alla luce della generale disciplina vigente e dei principi dalla stessa ricavabili.
Il procedimento da seguire allora rimane quello previsto dall’art. 22 della legge 448/2001 ossia: decreto del Ministro dell'istruzione di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti.
Nel caso di specie, non sono state sentite le commissioni parlamentari competenti per materia, e si è dunque violato l’espresso disposto della norma che ha inizialmente attribuito e disciplinato il potere. Ciò è sufficiente ad accogliere il ricorso per l’annullamento dei Decreti Interministeriali impugnati.

Anna Nardone
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 9 del 29 aprile – 12 maggio 2011

 

GIUDICI D’ACCORDO SULL’ASSEGNO
(Interpretazione convergente tra i magistrati della Corte dei conti)

Il diritto del pensionato pubblico all’applicazione degli aumenti secondo il coefficiente ISTAT calcolato su una IIS “teorica” intera, invece che su quella effettiva, decurtata in quarantesimi, a decorrere dalla data del raggiungimento dell'età pensionabile, è riconosciuto dalla giurisprudenza prevalente (si vedano da ultimo le recentissime decisioni Corte dei Conti per la Lombardia del 19 aprile 2010, favorevoli a dichiarare il diritto all’applicazione del citato meccanismo perequativo).
A tale proposito, e a titolo esemplificativo, si legga quanto correttamente esplicato in una precedente sentenza della Corte dei Conti Lombardia 393 del 2006: “Ai soli fini del calcolo della quota di incremento della pensione concettualmente riferibile alla perequazione della I.I.S. - e ferma restando la corresponsione in quarantesimi della I.I.S. effettivamente in godimento, alla quale l'aumento “intero” va a sommarsi - deve considerarsi una I.I.S. fittiziamente calcolata nella intera misura. Inoltre, tenuto conto della ratio della norma, che è quella di omogeneizzare gli incrementi per tutti i pensionati di una certa età - si rammenta che per “misura intera” deve intendersi non tanto l'ammontare dell'I.I.S. corrente alla data del pensionamento (I.I.S. storica), bensì l'importo attualizzato al periodo di riferimento della perequazione (comprensivo, cioè, delle variazioni medio tempore intervenute sulla I.I.S. “piena”).
Ugualmente concorde è l’opinione dei giudici delle pensioni sulla circostanza che i successivi criteri introdotti per il calcolo della perequazione automatica non abbiano innovato sul vigente sistema di adeguamento dell'IIS sancito dall'articolo 10 del decreto legge 17 del 1983, specie in ragione della finalità della norma che era quella di riconoscere ai pensionati “anticipati”, una volta compiuta l’età dovuta, un aumento dell’i.i.s. pari a quello spettante agli altri pensionati. L’interpretazioni illustrata, sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria, è altresì idonea a salvaguardare le ragioni di fondo sottese alla stessa riduzione dell'IIS in quarantesimi poiché, in ogni caso, la quantificazione dell'IIS percepita dai titolari di pensione di anzianità rimane comunque inferiore alla misura prevista per i pensionati cessati al raggiungimento del limite d'età, trovando ciò razionale giustificazione nella diversità sostanziale tra le posizioni soggettive sottostanti.
Ancora più chiara si propone la decisione 27/2006 della Corte dei Conti Piemonte: “ai soli fini del calcolo della quota di incremento della pensione concettualmente riferibile alla perequazione della i.i.s., e ferma restando la corresponsione in quarantesimi della i.i.s. effettivamente in godimento (alla quale l’aumento “intero” va a sommarsi), deve riconoscersi al pensionato (verificandosi le condizioni di cui al quarto comma, citato) una perequazione periodica calcolata sulla pensione comprensiva non già della i.i.s. “effettiva” in pagamento, bensì di una i.i.s. fittiziamente riconosciutagli nella intera misura. Inoltre, tenuto conto della ratio della norma, come sopra ricostruita, per “misura intera” deve intendersi non tanto quella storica, riferita alla i.i.s. corrente alla data del pensionamento, quanto quella attualizzata al periodo oggetto di perequazione (cioè comprensiva delle variazioni nel frattempo intervenute sulla i.i.s. “piena”). L’effetto pratico di questa interpretazione consiste nel riconoscere al pensionato, compiuta l’età prevista, un incremento periodico sulla i.i.s. (appunto: la sola “variazione”) pari a quello che gli sarebbe corrisposto se l’i.i.s. gli fosse stata concessa ab origine nella misura intera; così operando, l’incremento della i.i.s. è reso pari, tempo per tempo, a quello corrisposto a chi era andato in quiescenza con il massimo dell’anzianità; lo stesso beneficio è in tal modo conservato nel “nuovo” sistema della perequazione automatica esattamente come in quello “vecchio” del valore unitario del punto di contingenza, ferma restando l’i.i.s. “effettiva” in pagamento (che resta ragguagliata ai “quarantesimi”)”.
 

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 10 del 13 – 26 maggio 2010

 

SUGLI INFORTUNI RISPONDE L’ISTITUTO

(Il docente è imputabile soltanto nei casi di colpa grave)

Tutte le responsabilità per infortuni occorsi agli alunni, quindi anche quella per danno arrecato dall’alunno a se stesso, fanno capo all'amministrazione scolastica e non al docente o in genere al personale scolastico.
Detto regime trae fondamento – in generale - dal principio consacrato dall'art. 28 della Costituzione, in virtù del quale la responsabilità civile del personale pubblico per atti compiuti in violazione di diritti si estende allo Stato e agli enti pubblici: essa è, cioè, responsabilità dell'amministrazione; e in particolare, in tema di responsabilità del personale scolastico, dall'art. 61, c. 2, della legge 11 luglio 1980 n. 312 che prevede la sostituzione dell'Amministrazione scolastica, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, nella responsabilità civile derivante da azioni giudiziarie promosse da terzi, escludendo in radice la possibilità che gli insegnanti statali siano direttamente convenuti da terzi nelle azioni di risarcimento danni da culpa in vigilando, quale che sia il titolo - contrattuale o extracontrattuale - dell'azione. Ne deriva, pertanto, che in entrambi i casi l'insegnante è privo di legittimazione passiva in tale giudizio, fermo restando che, qualora l'Amministrazione sia condannata a risarcire il danno, l'insegnante sarà successivamente obbligato in via di rivalsa soltanto ove sia dimostrata la sussistenza del dolo o della colpa grave.
La Corte costituzionale, ha escluso che il privilegio processuale riconosciuto al personale scolastico sia in contrasto con l'art. 28 della Costituzione, secondo il quale – nel dettaglio -i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti e in tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. La limitazione ai soli casi di dolo o colpa grave della responsabilità verso l'Amministrazione che risarcisca il terzo dei danni subiti per comportamento degli alunni sottoposti alla vigilanza (ed è terzo , rispetto al successivo rapporto di rivalsa tra Amministrazione ed insegnante, anche l'alunno che sì sia autodanneggiato) va intesa - con stretta aderenza alla lettera della norma - nel senso che il limite è fissato verso l'Amministrazione e non verso i terzi. Si tratta, quindi, di un limite destinato ad operare soltanto nell'ambito dell'eventuale giudizio dì rivalsa che l'Amministrazione intraprenda contro l'insegnante davanti alla Corte dei conti, dopo aver subito una condanna a favore del danneggiato. Non è condivisibile la tesi secondo cui la menzionata limitazione si applicherebbe anche nelle controversie di risarcimento danni per culpa in vigilando promosse nei confronti degli insegnanti statali, e addirittura anche nei confronti dell'Amministrazione. Per quanto concerne l'Amministrazione, è infatti sufficiente notare che il citato art. 61 è ispirato da esigenze di tutela rivolte verso il personale scolastico, e non già verso l'Amministrazione, per cui eccede manifestamente le finalità della norma volgerla a tutela di quest'ultima, esentandola, senza plausibile ragione, dalla presunzione di responsabilità connessa all'attività di vigilanza sugli alunni, così determinando un ingiustificato aggravio, sul piano probatorio, per i danneggiato. Quanto agli insegnanti, la sottrazione degli insegnanti statali alle conseguenze, ritenute troppo gravose, dell’applicabilità nei loro confronti della presunzione di colpa è realizzata non sul piano sostanziale, bensì esclusivamente sul piano processuale, stabilendo che, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, l'Amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi.
Si precisa, infine, che il soggetto da ritenere legittimato passivo in simili azioni risarcitorie – e in concreto tenuto al pagamento del dovuto - è il Ministero, e non l'istituzione scolastica, rimanendo il personale scolastico personale dello Stato, nonostante la personalità giuridica riconosciuta alle scuole.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 12 del 3 - 16 giugno 2010

 

CONCILIAZIONE DELLE VERTENZE
(Per ricercare l’accordo è prevista una terza persona imparziale)

In materia di mediazione, è d’obbligo richiamare il recentissimo d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, con il quale - in attuazione della delega conferita con l. 18.6.2009 n. 69 – si è dato ampio spazio nell’ordinamento italiano alla mediazione, che – auspicabilmente – sarà d’aiuto anche nella composizione di molte vertenze che interessano il mondo della scuola.
Nel testo di legge la mediazione viene definita come attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa.
La riforma, operata in coerenza con la normativa comunitaria, afferma il principio che chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili. E’ anzi dovere dell’avvocato informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della mediazione. In talune materie, poi, - condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari – l’aver esperito preliminarmente un tentativo di mediazione diviene condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Lo stesso giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti, può invitare le stesse a procedere alla mediazione.
Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione e sulla decadenza gli effetti della domanda giudiziale.
La mediazione viene svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione, istituiti presso i consigli degli ordini degli avvocati, presso i tribunali, presso i consigli degli ordini professionali – tutti iscritti in appositi registi, con un regime di incompatibilità che garantisce la neutralità, l’indipendenza e l’imparzialità del mediatore nello svolgimento delle sue funzioni.
Al procedimento di mediazione si applica il regolamento dell'organismo scelto dalle parti, che deve in ogni caso garantire la riservatezza.
Il procedimento ha una durata non superiore a quattro mesi, e si svolge senza formalità presso la sede dell'organismo di mediazione. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l'organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari. Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia. Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio. Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto, né il mediatore può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione, né davanti all'autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità.
Se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell'accordo medesimo. Quando l'accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Il verbale di accordo, il cui contenuto non è contrario all'ordine pubblico o a norme imperative, è omologato, su istanza di parte e previo accertamento anche della regolarità formale, con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l'organismo. Il verbale costituisce titolo esecutivo per l'espropriazione forzata, per l'esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 8 del 15 - 28 aprile 2010

 

DIPLOMATI A COLPI DI RICORSI

(La Corte Costituzionale ha dichiarato legittimi i titoli ottenuti)

A seguito della reintroduzione dell’istituto dell’ammissione all’esame di stato – da quest’anno particolarmente rigoroso – si ripropone all’attenzione degli interpreti il problema dell’efficacia del titolo conseguito a seguito di ammissione all’esame per provvedimento cautelare del TAR. Sulla questione si è di recente pronunciata anche la Corte Costituzionale, che ha dichiarato legittimo il conseguimento ad ogni effetto del titolo da parte di candidati che abbiano superato le prove d’esame previste, anche se l'ammissione alle medesime sia stata realizzata a seguito di provvedimenti cautelari giurisdizionali (Corte Costituzionale, 9.4.2009 n. 108).
La conclusione si propone di evitare che il superamento delle prove d’esame venga reso inutile dalle vicende processuali successive al provvedimento con il quale un giudice abbia disposto l'ammissione alle prove di esame. Per raggiungere questo scopo, si rendono irreversibili gli effetti del superamento delle prove scritte e orali previste. Si rendono quindi irreversibili anche gli effetti dei provvedimenti giurisdizionali di natura cautelare che abbiano disposto l'ammissione alle prove stesse, precludendo l'ulteriore prosecuzione del processo eventualmente avviato.
Il principio si applica agli esami volti ad accertare l'idoneità dei candidati, dove l'accertamento viene compiuto da un organo imparziale e dotato di adeguate competenze: è necessario che l'accertamento vi sia, mentre non è decisivo che esso abbia luogo nel corso dell'ordinario procedimento di esame o a seguito di un provvedimento giurisdizionale.
Si tratta di una scelta operata dagli interpreti in sede di bilanciamento di interessi contrapposti. Da un lato, vi è l'interesse alla piena e definitiva verifica della legittimità degli atti compiuti dall'amministrazione nel corso del procedimento di esame e, quindi, della correttezza della precedente valutazione, che abbia in ipotesi condotto all'esclusione del candidato. Questo interesse indurrebbe a consentire la prosecuzione del processo fino alla sua naturale conclusione. Dall'altro lato, vi sono l'interesse a evitare che gli esami si svolgano inutilmente, quello a evitare che la lentezza dei processi ne renda incerto l'esito e, soprattutto, l'affidamento del privato, il quale abbia superato le prove di esame e - in ipotesi - avviato in buona fede una carriera universitaria. Dal punto di vista dell'interesse generale, vi è anche un'esigenza di certezza in ordine ai tempi di conclusione dell'accertamento dell'idoneità dei candidati, e in ordine ai rapporti instaurati dal candidato all’esito degli studi.
Si è ritenuto di contemperare i diversi interessi rilevanti, accordando una particolare tutela all'affidamento del cittadino. Il diritto di difesa dell'amministrazione è sì compresso, ma non eliminato, in quanto esso può comunque esplicarsi fino all'eventuale superamento delle prove. E la sua compressione è giustificata dal fatto che dell'interesse pubblico all'accertamento dell'idoneità del candidato, di cui l'amministrazione stessa è portatrice, il principio si fa comunque carico, richiedendo il superamento della prova: è solo a seguito della ripetizione della stessa o della nuova valutazione, con esito positivo - e non semplicemente sulla base di un provvedimento giurisdizionale - che il candidato consegue l'abilitazione. Vi è, quindi, comunque un accertamento dell'idoneità del candidato, affidato alla stessa amministrazione o ad altra egualmente portatrice dello stesso interesse pubblico.
Presupposto per l'applicazione del principio enunciato è che, a seguito di un provvedimento giurisdizionale, vi sia stato un nuovo accertamento dell'idoneità del candidato, con la ripetizione delle prove o con una nuova valutazione di esse. È questo accertamento amministrativo, e non il provvedimento del giudice, a produrre l'effetto di conseguimento del titolo che viene reso irreversibile. Si è ritenuto che, una volta operato il nuovo accertamento, la prosecuzione del processo sia superflua e possa andare a detrimento dell'affidamento del privato e della certezza dei rapporti giuridici.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 4 del 18 febbraio – 4 marzo 2010

 

MEDIAZIONE PRIMA SCELTA.

La mediazione per la risoluzione bonaria dei conflitti costituisce una alternativa al contenzioso giudiziario ritenuta dal mondo accademico e dalla stessa magistratura un sistema meglio rispondente alle istanze sociali dei cittadini. Invero, la soluzione giudiziaria delle controversie, con una sentenza che stabilisce vincitori e vinti, non sembra più soddisfare le esigenze di ricomporre anche le relazioni interpersonali. Il ricorso alla mediazione non è originato solo dalla crisi qualitativa e quantitativa della giustizia, ma soprattutto dalla convinzione che, più che sui rimedi, l’accento vada posto sulle cause che conducono alla litigiosità, facendo sorgere una cultura del conflitto che dia risposte adeguate, in termini di intervento e anche di prevenzione. In un tempo in cui la conflittualità sembra essere in continua espansione, si avverte sempre di più la necessità di seguire percorsi alternativi a quelli propri della giustizia tradizionale, pur rimanendo nell’ambito della legalità. Per questa ragione la ricerca accademica guarda con estremo interesse alla mediazione, e anche in Italia incominciano a sorgere iniziative rivolte soprattutto all’ambito familiare, scolastico o a quello penale minorile. Anche il legislatore ha operato in questa direzione: nel pubblico impiego, uno dei tratti caratteristici del nuovo sistema di tutela processuale è l’obbligatorietà di un previo tentativo di soluzione conciliativa della vertenza. Soltanto dopo l’esperimento, con esito negativo, della conciliazione, la controversa può essere sottoposta al giudice competente.
La mediazione è un’attività in cui una parte terza e imparziale aiuta due o più soggetti a capire l’origine del conflitto, e a confrontare i propri punti di vista. Al centro dell’interesse vi sono, dunque, i conflitti e i punti di vista dei soggetti partecipanti, e l’intervento del mediatore consente di fare evolvere dinamicamente la situazione problematica, facendo riaprire canali di comunicazione. Durante l’incontro di mediazione le parti hanno la possibilità di risolvere le loro dispute, provando a raggiungere una reciproca comprensione e a modellare le loro relazioni future sulla base dell’esplicitazione dei rispettivi punti di vista. Il processo di mediazione promuove quindi la partecipazione delle parti, chiamate ad assumersi una responsabilità diretta rispetto all’accaduto: tale reciproco coinvolgimento può costituire la premessa per la costruzione di accordi e di una maggiore stabilità relazionale.
La mediazione, nata in Canada ed esportata in molti paesi dell’area occidentale, ha per obiettivo non soltanto risolvere un conflitto, ma riattivare il dialogo fra le parti, attraverso l’intervento di soggetti che, formati alla capacità di ascolto, non giudicano, non emettono sentenze, non stabiliscono né vinti né vincitori, ma ricompongono, attraverso un’azione che aiuta a fare emergere il potenziale umano dalle parti in conflitto, ripristinando il circuito di comunicazione interrotto, trasformando in elemento positivo di crescita quella stessa energia utilizzata dalle parti per portare avanti la controversia. La mediazione trova senso nelle situazioni in cui, più che l’intervento di un giudice, serve dare effettivo ascolto e risposte, anche in termini di linguaggio, più adeguate al contesto.
Anche nel mondo della scuola lo strumento della mediazione diventa fondamentale quale momento capace di ricreare relazioni costruttive con e tra il personale docente e non docente, con gli studenti e le loro famiglie, con gli enti locali - favorendo così il successo formativo dei giovani. E’ soprattutto il dirigente scolastico a dover conoscere e applicare con efficacia i metodi di intervento della mediazione quale sistema di gestione dei conflitti che insorgono all’interno dell’ambiente di lavoro, così da realizzare un clima di lavoro sereno e produttivo, anche nell’interesse degli allievi. Non può esserci infatti successo formativo degli allievi, qualunque sia il loro corso di studi, senza una buona qualità delle relazioni interpersonali. Ad oggi, è profonda l’insoddisfazione al riguardo espressa da tutte le componenti della scuola: studenti, docenti, dirigenti, famiglie; e non di rado questo malessere arriva a manifestarsi con azioni anche gravi, dal vandalismo alla dispersione scolastica, dimostrative del disagio sociale. Ciò accade perché difettano ancora le capacità di trattare in modo costruttivo i momenti critici della relazione, quelli in cui nasce il conflitto: quest’ultimo dovrebbe essere considerato un momento fisiologico della relazione, e divenire occasione di crescita per tutti; e ciò è possibile se si conosce e si applica efficacemente la metodologia di intervento della mediazione. In mancanza di strumenti idonei a gestirlo il conflitto diventa distruttivo. Occorre quindi, anche nell’ambiente scolastico, una nuova educazione alla relazione, che permetta di gestire pacificamente un conflitto, invece di soffermarsi a individuare le responsabilità.

Domenico Barboni

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 6, 24 marzo- 6 aprile 2006

 

GRADUATORIE CONCORSI AL GIUDICE DEL LAVORO

Il provvedimento di nomina dei concorrenti idonei per scorrimento della graduatoria non differisce dalla nomina dei vincitori quanto alla sua natura giuridica e alla sua funzione, trattandosi, in entrambi i casi, di provvedimenti di assunzione autonomi dalla procedura concorsuale, che ha il diverso e strumentale fine di selezionare i concorrenti più idonei ad occupare i posti messi a concorso e quindi ad essere nominati per quei posti. Di conseguenza, le controversie aventi ad oggetto pretese alla nomina per scorrimento della graduatoria, esulano dalla materia concorsuale e si collocano al di fuori del potere giurisdizionale del giudice amministrativo per rientrare in quello del tribunale ordinario in funzione di giudice del lavoro. Così ha deciso il Consiglio di Stato, sez. V, in una recente pronuncia (sentenza n. 437/2006), confermando l’orientamento espresso in precedenza dalla stessa Corte di Cassazione.
La vicenda
Il ricorrente, in posizione utile per la nomina a seguito dello scorrimento della graduatoria relativa ad un concorso per il conferimento di posti di presso una pubblica amministrazione, si era visto opporre dall’amministrazione il diniego di stipulare il contratto di lavoro. Il medesimo aveva adito il giudice amministrativo domandando l’annullamento di quell’atto negativo, nella specie per difetto di motivazione sotto vari profili.
L’amministrazione si era difesa, principalmente, deducendo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito, ed eccependo che la controversia in oggetto, riguardando la materia del rapporto di pubblico impiego, doveva essere sottoposta al giudice ordinario.
Il Consiglio di Stato, definitivamente pronunciando, senza entrare nel merito della questione proposta dal ricorrente, ha accolto l’eccezione dell’amministrazione relativa alla competenza a giudicare sulla controversia, affermando il principio su esposto.
Motivi della decisione
Il giudice adito afferma che la questione sottoposta al suo giudizio esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo. In base all’art. 63 del D.Lgs 30.3.2001, n. 165 (testo unico del pubblico impiego), infatti, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro (art. 63, comma 1), così come le controversie riferite ai rapporti di impiego privato. Il trasferimento della competenza a decidere sui rapporti di pubblico impiego dai TAR ai tribunali in funzione di giudici del lavoro è una conseguenza del processo di privatizzazione dell’impiego presso le amministrazioni pubbliche, iniziato nel 1993. Alla giurisdizione del giudice amministrativo restano ancora devolute le controversie in materia di procedure concorsuali (art. 63, comma 4) – oltre che quelle attinenti al rapporto d’impiego di alcune categorie di personale pubblico, quali militari, magistrati, corpo prefettizio, corpo diplomatico.
Le procedure concorsuali, propedeutiche all’assunzione – sulle quali il TAR è tuttora competente a decidere -, terminano con l’approvazione della graduatoria. Il successivo atto di nomina del vincitore, ovvero più correttamente, il successivo provvedimento di individuazione del destinatario del contratto individuale di lavoro con l’amministrazione, riguarda già il rapporto – e come tale rientra nella giurisdizione del giudice del lavoro; e ciò sia che l’individuazione riguardi direttamente i vincitori del concorso, sia che concerna gli idonei nominati a seguito del procedimento di scorrimento della relativa graduatoria; come accade nella fattispecie sottoposta al Consiglio di Stato, sulla quale il medesimo giudice amministrativo declina ogni potere di decidere.
Il Consigli di Stato coglie l’occasione per confutare la tesi contraria - prospettata da diversa giurisprudenza - secondo cui lo scorrimento della graduatoria sarebbe equiparabile, nella sostanza, all’espletamento della procedura concorsuale, perché individua ulteriori vincitori, e quindi rientrerebbe nella giurisdizione amministrativa. Invero, secondo il Consiglio di Stato, il provvedimento che individua quali destinatari di contratti di assunzione i concorrenti idonei per scorrimento della graduatoria non differisce dall’individuazione dei vincitori quanto alla sua natura giuridica e alla sua funzione, trattandosi, in entrambi i casi, di provvedimenti di assunzione autonomi e successivi alla procedura concorsuale, che ha il diverso e strumentale fine di eleggere i concorrenti più idonei ad occupare i posti messi a concorso e quindi ad essere individuati quali destinatari di quei posti. La tesi prospettata è condivisa altresì dalla Corte di Cassazione (sentenze 5.3.2003, n. 3252; 29.9.2003, n. 14529): anche per quel giudice, la pretesa alla nomina rientra nella giurisdizione del giudice ordinario anche quando, a monte, vi sia una decisione dell’amministrazione di avvalersi dello scorrimento della graduatoria. A questo proposito, precisa il Collegio, la decisione dell’amministrazione di avvalersi dello scorrimento della graduatoria, quando non sia prevista dal bando l’estensione della nomina ai candidati idonei per l’eventualità della sopravvenienza di ulteriori posti liberi oltre quelli già messi a concorso, è certamente un provvedimento organizzativo che rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo. Ugualmente, può ritenersi equipollente alla procedura concorsuale – rimessa al potere decisionale del TAR - l’estensione della possibilità di utilizzare la graduatoria con la nomina di ulteriori candidati risultati idonei, nel caso che lo scorrimento della graduatoria sia previsto dalla legge o sia stabilito dalla stessa amministrazione procedente.
Il provvedimento di nomina, però, in tutti i casi, attiene, anche per quanto concerne il relativo procedimento, alla diversa fattispecie della concreta instaurazione del rapporto di impiego pubblico, integralmente devoluto alla giurisdizione del giudice del lavoro.

Anna Nardone

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 4, 24 febbraio – 9 marzo 2006

 

INCARICHI AI GIUDICI, CSM INSINDACABILE

(Conferimento di incarichi)

La delibera del Consiglio Superiore della Magistratura di conferimento degli uffici direttivi è espressione di discrezionalità tecnica e non è pertanto censurabile dal giudice amministrativo, che non può sostituire - proprio per le connotazioni della valutazione di specie - la propria valutazione a quella dell’organo di autogoverno della magistratura.
Rispetto a tale delibera dell’assemblea plenaria del Consiglio superiore della magistratura, anche la proposta della Commissione interna, che interviene nel procedimento con poteri istruttori e consultivi, costituisce un parere conclusivo, obbligatorio ma non vincolante – secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato. Infatti la proposta della Commissione venisse considerata vincolante, costituirebbe una limitazione al potere del plenum del Csm. Ma si entrerebbe così in contraddizione con la circostanza che la Commissione interna altro non è che una articolazione dell’assemblea plenaria, alla quale sono riferiti gli atti finali del procedimento. In interpretazione del genere sarebbe anche in contrasto con quanto disposto dagli articoli 104 e 105 della Costituzione, che disciplina la struttura del Consiglio superiore della magistratura e i poteri attribuiti a tale struttura.
A dettare queste indicazioni è il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1334/2004, intervenuta in occasione del giudizio sul conferimento della titolarità della sede e delle funzioni di procuratore generale presso una corte d’appello. La pronuncia riforma la pronuncia del Tar Lazio, che aveva giudicato illegittimo il decreto di assegnazione alle sede e alle funzioni, sotto diversi profili. Il Consiglio di Stato, in particolare, ha dapprima giudicato che l’assemblea plenaria del Consiglio superiore della magistratura ha il potere di modificare la proposta della Commissione interna, emendandola: la commissione svolge, infatti, un ruolo a metà tra l’istruttorio e il consultivo. Il massimo organo della giustizia amministrativa ha poi ritenuto che il Csm abbia valutato in modo ineccepibile i magistrati concorrenti, secondo la prassi applicativa seguita per il conferimento di uffici direttivi. E cioè dando, doverosamente, maggior rilievo alla capacità organizzativa mostrata nel corso della carriera e alla impossibilità per alcuni aspiranti di assicurare la permanenza nell’ufficio richiesto per il periodo minimo di tre anni, rispetto ad altri elementi favorevoli, quali la maggiore anzianità, la titolarità di un ufficio direttivo superiore, la lunga esperienza. Il Consiglio di Stato ha giudicato tale valutazione conforme ai principi fissati dalle norme primarie e dai criteri di attuazione di tali norme, e alle linee direttive prefissate dallo stesso Csm.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il sole 24 ore” del 12 luglio 2004.

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