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Pensioni, emolumenti, indennità

POSSIBILE SCONTRO TRA MANOVRE

(Previdenza “schiacciata” dallo stop alla spesa per l’impiego)

La manovra di Ferragosto rischia di contraddire il dispositivo del luglio scorso (Dl 6.7.2011 per il contenimento della spesa in materia di impiego pubblico). La querelle su criteri e limiti di età e di maggior carico che ne deriva pone tutto in discussione.
La norma generale di riferimento in materia di cessazione dal servizio del personale scolastico è l’art. 1, comma 1, DPR 351/1998, recante norme per la semplificazione dei procedimenti in materia di cessazione dal servizio e di trattamento di quiescenza del personale della scuola, a mente del quale i collocamenti a riposo per limiti di età del personale del comparto Scuola con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall'inizio dell'anno scolastico o accademico successivo alla data di compimento del sessantacinquesimo anno di età ovvero al termine del periodo di trattenimento in servizio. A tal fine non occorre un provvedimento formale dell'Amministrazione.
Rispetto a tale previsione, l’art. 72, comma 11 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 – convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni – dispone che eccezionalmente per il triennio 2009 –2011, le pubbliche amministrazioni (comprese quelle scolastiche) possono licenziare unilateralmente il personale dipendente (anche dirigenziale) a decorrere dal compimento dell'anzianità massima contributiva di quaranta anni, nell'esercizio di poteri di diritto privato, con un preavviso di sei mesi, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenza dei trattamenti pensionistici. Restano esclusi dalla disposizione i magistrati, i professori universitari e i dirigenti medici responsabili di struttura complessa.
Con direttiva 13 del 2.2.2009 il ministero dell’Istruzione precisa che la disposizione di legge in esame si colloca nell’ambito degli interventi di contenimento della spesa pubblica, con particolare riferimento alla spesa per il personale, e si prefigge di evitare il concretizzarsi o il permanere di situazioni che determinerebbero una ingiustificata maggiore spesa per il bilancio del Ministero.
La direttiva specifica che ai fini dell’applicazione dell’art. 72, comma 11, che ha attribuito all’Amministrazione la facoltà di risoluzione del rapporto di lavoro per compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, l’Amministrazione assume come prioritaria l’esigenza di evitare situazioni di esubero del personale nella classe di concorso, posto o profilo di appartenenza, nell’arco del triennio 2009-2011 durante il quale verranno poste in essere le riforme ordinamentali e la nuova organizzazione della rete scolastica. A tal fine i Direttori degli Uffici Scolastici Regionali, sulla base dei dati acquisiti al sistema informativo del MIUR, forniscono ai dirigenti scolastici, in tempo utile per l’adozione dei provvedimenti di competenza, tutti gli elementi utili a determinare l’esistenza o meno della situazione di esubero e la sussistenza, in capo a ciascuno dei soggetti interessati, del requisito dei 40 anni di anzianità contributiva. La risoluzione prevista dal succitato comma 11 dell’art. 72 è immediatamente applicata (oltre che nei predetti casi di esubero) anche nei confronti del personale che versi in particolari situazioni: collocamento permanente fuori ruolo per motivi di salute; valutazione negativa, con adeguata e documentata motivazione, della consistenza e qualità del servizio prestato.
Da ultimo, con la manovra del luglio scorso - DL 6.7.2011 n. 98 convertito in L 15.7.2011 n. 111 - all’art. 16 (avente ad oggetto “Contenimento delle spese in materia di impiego pubblico”) si è previsto che in tema di risoluzione del rapporto di lavoro l'esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal comma 11 dell'articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l'amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri di applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo.
Occorre attendere le prime pronunce per vedere se la novità legislativa determinerà un cambio di orientamento nella giurisprudenza del lavoro – sinora favorevole al personale licenziato.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 14 del 2 - 15 settembre 2011

PENSIONI, NO AL RIMBORSO
(L’ente non potrà esigere il credito a suo favore se è trascorso troppo tempo)

Il recupero del credito formatosi sul trattamento pensionistico provvisorio non è più legittimamente praticabile dall’Inpdap decorso il termine posto per l’emanazione del provvedimento definitivo, per il consolidarsi della situazione esistente fondato sull’affidamento riposto nell’amministrazione.
L’art. 162 del DPR 1092/1973, n. 1092 (sostituito dall'art. 7 del DPR 138/1986) dispone che dalla data di cessazione dal servizio e sino all'inizio del pagamento della pensione diretta è corrisposto al pensionato un trattamento provvisorio, determinato in relazione ai servizi risultanti dalla documentazione prodotta ovvero in possesso dell'amministrazione, da recuperare in sede di liquidazione della pensione definitiva: qualora infatti l'importo della pensione definitiva risultante dal decreto definitivo non sia uguale a quello attribuito in via provvisoria l’amministrazione provvede alle necessarie variazioni, facendo luogo al conguaglio a credito o a debito.
La norma citata tende a contemperare l’esigenza del pensionato di godimento immediato del trattamento di quiescenza, determinato provvisoriamente sulla base della posizione giuridica ed economica già accertata, con la necessità dell’ente di disporre di maggior margine di tempo per la liquidazione definitiva: ma è da escludere che l’Amministrazione possa differire per un tempo indefinito la conclusione del procedimento (in particolare con l’entrata in vigore della L. 241/1990).
Anche qualora l’Amministrazione ritenga sussistere un credito verso il pensionato, per la differenza tra il maggior trattamento già erogatogli in via provvisoria e quello accertato in via definitiva, non è sempre ammesso il recupero del preteso indebito oggettivo.
E’ infatti principio notorio, consacrato dalla sentenza delle sezioni riunite della Corte dei Conti n. 7/2007/QM – e ribadito dalle Corti territoriali (cfr. tra le tante C. Conti Veneto, 18.3.2009, n. 230; C. Conti Marche, 15.4.2009, n. 138) – che ogni qualvolta l'ente previdenziale pretenda dal pensionato la ripetizione di somme, occorre verificare se si è in presenza di un indebito in senso proprio ovvero se, a causa della condotta dell'amministrazione che ha protratto indefinitamente un procedimento, si è consolidato nel percipiente il diritto al mantenimento delle maggiori somme percepite. Solo nel primo caso gli enti potranno ripetere le somme erroneamente corrisposte secondo le normali regole civilistiche; nella seconda ipotesi non potrà farsi luogo alla ripetizione perché, in buona fede, il pensionato è legittimato a ritenere che il procedimento per la concessione del trattamento pensionistico si sia ormai concluso e che, pertanto, l'importo percepito sia definitivo.
Nella succitata delle sezioni unite della Corte dei Conti n. 7/2007/QM, infatti, è stato chiarito definitivamente che “in assenza di dolo dell’interessato, il disposto contenuto nell’articolo 162 del DPR n. 1092 del 1973, concernente il recupero dell’indebito formatosi sul trattamento pensionistico provvisorio, deve interpretarsi nell’ambito della disciplina sopravvenuta contenuta nella legge n. 241 del 1990, per cui […] decorso il termine posto per l’emanazione del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza, non può più effettuarsi il recupero dell’indebito, per il consolidarsi della situazione esistente, fondato sull’affidamento riposto nell’Amministrazione.”.
Con l'art. 2 della menzionata l. n. 241 del 1990 è stato infatti introdotto il principio della generalizzata certezza dei tempi dell'azione amministrativa, attraverso termini predeterminati per legge ovvero determinati dalle singole amministrazioni. Nella materia pensionistica si è allora prevista – con norma regolamentare – la corresponsione “in via definitiva entro il mese successivo alla cessazione dal servizio” del trattamento pensionistico dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (cfr. D.M. n. 352/1998 e Circolare n. 33/2004 dell’INPDAP). Tale innovazione rappresenta uno strumento di tutela per i pensionati destinatari dell'azione della pubblica amministrazione, i quali possono ora riporre un affidamento qualificato nella durata dei procedimenti che li riguardano, e far valere le conseguenze dell'inadempimento per superamento del termine prefissato; il tutto al fine di garantire la più rigorosa e ampia tutela patrimoniale del soggetto che cessa dal servizio con diritto a pensione.
Nella casistica concreta, si osserva che l’ampio decorso del termine posto per l’adozione del provvedimento di concessione di pensione definitiva, l’assenza di dolo del pensionato che abbia determinato in errore l’amministrazione, rendono senz’altro inaccoglibili le pretesa restitutorie dell’Amministrazione. E’ evidente che la percezione del trattamento per un lungo lasso di tempo induce ad uno stato di affidamento sull’effettiva spettanza delle somme e dunque sulla definitività della corresponsione senz’altro prevalente rispetto all’interesse dell’Inpdap creditore: l’inerzia nell’emissione del provvedimento definitivo affievolisce il concreto interesse alla tutela del credito e cristallizza invece la situazione sottostante.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 5 del 4 -18 marzo 2011

 

COME FUNZIONA L’EQUO INDENNIZZO

(Inpdap competente per il trattamento pensionistico di privilegio)

Per le richieste di riconoscimento di infermità derivanti da causa di servizio le norme di riferimento sono ora contenute nel regolamento 461 del 2001 (che ha sostituito il vecchio regolamento 349 del 1994), nell’informativa dell’INPDAP 19 del 2003 e nella circolare del MIUR 45 del 2003.
Quanto alle competenze ad emettere atti in materia, spetta agli Uffici scolastici regionale (ovvero, su delega, agli uffici provinciali) adottare nei confronti di tutto il personale scolastico (dirigente, docente, educativo ed A.T.A.) gli atti concernenti il riconoscimento delle infermità dipendenti da causa di servizio e la concessione dell’equo indennizzo. Gli atti relativi ai trattamenti pensionistici di privilegio sono stati invece affidati alla competenza dell’INPDAP, a cui devono essere inviate le relative istanze.
L’attività preparatoria relativa al procedimento di riconoscimento dell’infermità per causa di servizio è di competenza dell’istituzione scolastica. Le istanze di riconoscimento della dipendenza di infermità da causa di servizio e concessione di equo indennizzo, avanzate da parte del personale scolastico o dagli eredi in caso di morte, debbono essere presentate alla Scuola di titolarità, unitamente a tutta la documentazione di supporto. Tali istanze debbono essere presentate entro sei mesi dalla data in cui si è verificato l’evento dannoso o da quella in cui si ha avuto conoscenza della infermità o della lesione. Se questo termine non viene rispettato, la dipendenza dell’infermità da causa di servizio può ancora essere formalmente riconosciuta, ma non produce i benefici di legge previsti per l’equo indennizzo. Per quanto riguarda l’aggravamento, l’impiegato che abbia già goduto di un equo indennizzo, nel termine di cinque anni può ottenere un’indennità maggiore se la sua menomazione abbia subito un constatato peggioramento.
Tutte le domande relative al riconoscimento di causa di servizio debbono essere successivamente trasmesse agli uffici scolastici territoriali, complete dei dati e della documentazione necessaria, ivi compresa una relazione redatta dal Dirigente Scolastico, nella quale informi sulle circostanze che hanno determinato l’evento lesivo ed esprima esplicitamente il proprio motivato parere, favorevole o sfavorevole, in ordine alla dipendenza o meno da fatti di servizio della infermità contratta dal dipendente.
Qualora l’infermità denunciata dovesse risultare dipendente da infortunio in itinere, ossia avvenuta durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di abitazione, l’interessato dovrà allegare anche il verbale redatto dagli Organi di Polizia, se intervenuti, sulla dinamica dello stesso; eventuali prove testimoniali; dovrà precisare se il tratto di strada in cui si è verificato l’infortunio rientra nel percorso abitazione-ufficio; ?se la data e l’ora dell’infortunio sono coerenti con il servizio che l’interessato si apprestava a svolgere o aveva svolto.
Il citato DPR 461 del 2001 ha attribuito alle nuove Commissioni Mediche la competenza sulla formulazione della diagnosi dell'infermità o lesione, comprensiva del giudizio sulla idoneità o meno al servizio, ma non in merito al nesso causale tra il servizio e l'evento dannoso, nesso sulla cui sussistenza è, invece, chiamato a pronunciarsi in forma esclusiva il Comitato di verifica per le cause di servizio, con carattere di definitività. Quanto alla concessione dell'equo indennizzo, se richiesta unitamente al riconoscimento di infermità o, in ogni caso, prima della formulazione del parere del Comitato di verifica per le cause di servizio, può essere attribuito, con un unico provvedimento formale, contestualmente al riconoscimento della dipendenza mentre, ove richiesto successivamente, l'attribuzione è subordinata alla verifica dei termini procedurali (non oltre sei mesi dalla data di notifica del provvedimento formale di riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio).

Domenico Barboni
(Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 7 dell’ 1 - 14 aprile 2011)

 

PENSIONI: NO AL CALCOLO I.I.S.
(L’indennità integrativa speciale non modifica il computo complessivo)

La questione del diritto del personale scolastico al computo dell’indennità integrativa speciale (IIS) nella base di calcolo della pensione ai fini del suo incremento del 18% stabilito dalla legge 177/1976 – ad oggi negato dall’INPDAP – sembra trovare una soluzione sfavorevole agli ex dipendenti nelle più recenti sentenze delle Corti dei Conti regionali (cfr. tra le molte Corte Conti Campania, 20.12.2010 n. 2867; Corte Conti Puglia 7.12.2010 n. 773; Corte Conti Emilia Romagna 19.11.2010 n. 1840; Corte Conti Lombardia 21.7.2010 n. 432; Corte Conti Marche 29.3.2010 n.68; Corte Conti Emilia Romagna 11.1.2010 n.28; Corte Conti Veneto 22.1.2010 n.59; Corte Conti Lombardia 5.3.2009 n. 106).
Nel dettaglio, i rappresentanti dei dipendenti - e alcune isolate pronunce - ritengono che l’avvenuto conglobamento dell’IIS nello stipendio ad opera della contrattazione collettiva - dal 1.1.2003 per il personale docente e non docente - imponga il computo dell’IIS ai fini della suddetta maggiorazione.
La maggior parte dei giudici delle pensioni osservano al contrario, in primo luogo, che lo stesso contratto collettivo del comparto scuola prevede testualmente che il conglobamento nello stipendio tabellare dell’indennità integrativa speciale non modifica le modalità di determinazione della base di calcolo in atto del trattamento pensionistico.
A tale decisivo argomento aggiungono che l’IIS è considerata dal legislatore pensionabile in quanto parte della retribuzione nel suo complesso, ma non già elemento essenziale e costitutivo dello stipendio strettamente inteso, e come tale non è maggiorabile in sede pensionistica così come lo stipendio.
Lo stesso art.15, della legge 177/1976 ha disposto che: “Ai fini della determinazione della misura del trattamento di quiescenza dei dipendenti civili, la base pensionabile, costituita dall’ultimo stipendio o dall’ultima paga o retribuzione e dagli assegni o indennità pensionabili sotto indicati integralmente percepiti, è aumentata del 18 per cento”; e tra gli assegni ivi elencati non è compresa l’IIS.
Di più la norma citata ha statuito: “Agli stessi fini, nessun altro assegno o indennità, anche se pensionabile, possono essere considerati se la relativa disposizione di legge non ne preveda espressamente la valutazione nella base pensionabile”
La norma, in altre parole, impone di accertare, qualora occorra stabilire se un assegno o indennità possa includersi nella base pensionabile ai fini dell’incremento 18%, se ciò sia stato espressamente previsto dalla legge, non essendo consentito inserire con contratto collettivo voci retributive nella base pensionabile aumentabile nel modo indicato.
Nel caso di specie, osservano le Corti dei Conti citate, non è dato rinvenire nella normativa successiva alla legge n. 177/1976 alcuna previsione in tal senso, rinvenendosi anzi – come ricordato - un dato contrattuale contrario a tale computo dell’IIS in base pensionabile, né vi può rientrare attraverso un’operazione di mera interpretazione delle norme vigenti.
Com’è noto, è stata la legge 724/1994 a far perdere la connotazione di elemento accessorio all’IIS, che è così confluita nella retribuzione pensionabile unitamente alla paga tabellare, senza però perdere la propria intrinseca natura di voce diversa dallo stipendio. Il conglobamento dell’IIS è infatti avvenuto non nello stipendio tabellare, bensì nella retribuzione indistintamente considerata, così che allo stipendio in senso stretto e alla predetta indennità non debba applicarsi la stessa disciplina.
Chiarito che la legge non ha definito l’IIS quale elemento dello stipendio strettamente intese, come tale soggetto al regolamento propria dello stipendio medesimo, è escluso che la contrattazione collettiva possa fare ciò che non ha fatto la legge: la materia pensionistica non è disciplinabile in sede di accordi di comparto, ma è riservata alla legge.
Pertanto, il contratto collettivo può, come avvenuto nella fattispecie, spostare un’indennità nel trattamento retributivo, ma non modificare le modalità di computo sostanziale della pensione, con una sorta di modifica della natura dell’IIS ai fini della sua maggiorazione, senza l’esplicito avallo di una norma di legge.
Le considerazioni espresse – decisive ai fini della soluzione della questione - riflettono un orientamento giurisprudenziale consolidato nel senso che non è sufficiente la pensionabilità di un assegno o di un’indennità per il suo inserimento nella base pensionabile incrementabile, in assenza di una specifica disposizione di legge che ciò espressamente preveda. Nei termini indicati si sono infatti pronunciate le Sezioni giurisdizionali e di Controllo della Corte dei Conti anche con riferimento ad altri assegni o indennità, tra cui l’indennità di volo e aeronavigazione; l’indennità di ausiliaria; la retribuzione annua di posizione dirigenziale; l’assegno funzionale.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 2 del 21 gennaio - 3 febbraio 2011

 

PENSIONI, INDENNITA’ INTERA
(Gli ex dipendenti collocati a riposo in anticipo hanno diritto al trattamento)

Al raggiungimento dell’età pensionabile, gli ex dipendenti pubblici collocati in pensione anticipata hanno diritto agli aumenti periodici dell’indennità integrativa speciale considerata per l’intero importo, e non nella misura effettivamente in pagamento (calcolata in ragione di un quarantesimo per ogni anno di servizio utile).
La questione – attualmente oggetto di numerose controversie giudiziarie, concluse a favore dei pensionati – interessa i titolari di pensione liquidata con l’attribuzione di IIS separata e in misura ridotta, quindi quanti sono andati in pensione dopo il 28.01.1983 e prima del 31.12.1994. Infatti, da un lato, fino al 28.01.1983 l’IIS veniva attribuita, indipendentemente dagli anni utili a pensione, in misura intera (80% di quella corrisposta al personale in servizio). Dall’altro, dal 1° gennaio 1995, l’indennità integrativa speciale non viene più attribuita in modo separato come assegno accessorio ma viene conglobata nella retribuzione pensionabile: quindi i titolari di pensioni liquidate prima e dopo quelle date non sono destinatari della normativa in parola.
Secondo il sistema sancito dall'articolo 10 del decreto legge 17 del 1983, la misura dell’IIS da corrispondere in aggiunta alla pensione era determinata in ragione di un quarantesimo per ogni anno di servizio, utile ai fini del trattamento di quiescenza, dell’importo dell'indennità stessa spettante al personale collocato in pensione con la massima anzianità di servizio; e le variazioni dell'IIS erano attribuite per l'intero importo dalla data del raggiungimento dell'età di pensionamento da parte del titolare della pensione.
Il citato articolo disciplinava l’originario sistema di calcolo della IIS organizzato secondo un frazionamento in quarantesimi, se il pensionato non aveva raggiunto il limite di età, misura volta evidentemente a disincentivare i pensionamenti anticipati. L’evoluzione della IIS seguiva così un modello di aggiornamento apposito, con regole, scadenze ed indici distinti da quelli previsti per la pensione.
Tale disposizione sfavorevole veniva però temperata dallo stesso articolo, secondo il quale le variazioni all’IIS erano attribuite per l’intero importo dalla data del raggiungimento dell’età di pensionamento. Grazie a tale deroga, le variazioni trimestrali della IIS maturate dopo il raggiungimento del limite di età non erano soggette al frazionamento in quarantesimi, secondo il criterio seguito per la determinazione del trattamento.
Il meccanismo era rivoluzionato dall’entrata in vigore della legge 730 del 1983 che disponeva che le pensioni, alle quali si applica la disciplina dell'indennità integrativa speciale fossero considerate comprensive dell'indennità stessa; e che gli aumenti dovuti fossero attribuiti sull'indennità integrativa speciale e sulla pensione; ferma la disciplina prevista per l'attribuzione, all'atto della cessazione dal servizio, dell'indennità integrativa speciale e in particolare il citato articolo 10 del decreto legge 17/1983.
La novità rispetto al sistema precedente consisteva nell’aver introdotto un meccanismo di perequazione automatica (c.d. “punto unico di contingenza”), che va a sostituire precedente. In tal modo la pensione complessiva – composta dalla somma tra pensione base ed IIS – viene rivalutata periodicamente in base al costo della vita rilevato dall’ISTAT, pertanto le variazioni dell’IIS non sono più oggetto di un diverso sistema di perequazione, ma seguono i medesimi criteri relativi alla pensione base.
Il coefficiente ISTAT viene così applicato ad una IIS “teorica”, calcolata in misura intera, invece che su quella effettivamente corrisposta, decurtata in quarantesimi. Ciò ai soli fini del calcolo della quota di incremento della pensione concettualmente riferibile alla perequazione della IIIS e ferma restando la corresponsione in quarantesimi della I.I.S. effettivamente in godimento, alla quale l'aumento “intero” va a sommarsi.
Non vi è motivo di dubitare che il nuovo complesso di norme non abbia abrogato, mancando una esplicita disposizione in tal senso, le disposizioni contenute nel più volte richiamato articolo 10 del decreto legge 17 del 29 gennaio 1983, e che quindi le variazioni dell'indennità integrativa speciale calcolate secondo detto meccanismo debbano essere applicate anche a chi gode di una indennità frazionata, dalla data del raggiungimento dell'età di pensionamento. Anzi, a ben vedere, la legge 730 del 1983 faceva salva la preesistente disciplina riguardante l’IIS richiamando espressamente la normativa stabilita dall’articolo 10 del decreto legge 29 gennaio 1983, n. 17.
Per l’effetto del combinato disposto delle norme (tuttora) vigenti, il personale pubblico in pensione vanta un giusto diritto a vedersi riconoscere la corresponsione degli aumenti perequativi previsti calcolati sull’intera indennità integrativa speciale e non su quella in godimento ragguagliata in quarantesimi, con decorrenza dalla data di compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 10 del 13 – 26 maggio 2010

 

NO ALLA PENSIONE IMPOSTA
(Sentenze favorevoli ai lavoratori licenziati per raggiunti limiti di età)

I primi licenziamenti intimati dalle amministrazioni scolastiche nei confronti del personale con quarant’anni di contributi – in ossequio alla legge 133/2008 – hanno già dato vita ad un nutrito contenzioso, e a diverse pronunce favorevoli ai lavoratori pubblici.
Com’è noto, la legge citata prevede - limitatamente agli anni 2009, 2010 e 2011 – la facoltà per l’amministrazione di recedere dal rapporto di lavoro con i dipendenti che abbiano raggiunto l’anzianità massima contributiva dei quarant’anni, fatti salvi i magistrati, i professori universitari e i dirigenti medici responsabili di struttura complessa, e per certi versi anche i dirigenti scolastici.
La norma si inserisce in un più ampio ambito di interventi per il contenimento della spesa per il pubblico impiego, finalizzati ad assicurare una migliore qualificazione dei servizi, e che comprendono la revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico del sistema scolastico vigente. Nell’intenzione del legislatore, l’attuazione di tali interventi comporterà, nel triennio 2009 - 2011, la riduzione di un rilevante numero di posti di docenti e di personale ATA. Non solo; le suddette modifiche ordinamentali richiederanno l’impiego di nuove professionalità per le quali dovranno essere programmati interventi di formazione e di riqualificazione professionale, da indirizzare con priorità al personale in servizio che abbia prospettive di continuità lavorativa.
Con specifico riguardo ai primi licenziamenti intimati a personale docente e ATA della scuola, diversi giudici del lavoro hanno concluso per l’annullamento dei relativi atti, con conseguente ordine di reinserimento sul posto di lavoro fondamentalmente sulla base del difetto di motivazione dell’atto di recesso.
In particolare, si è ritenuto che il licenziamento immotivato – senza una valutazione caso per caso della necessità di procedere alla risoluzione del rapporto - costituisce un grave e irreparabile pregiudizio al percorso professionale del personale scolastico. In altre parole l'attività didattica dei docenti subirebbe un ingiustificato arresto che danneggerebbe la loro immagine e la dignità professionale degli insegnanti, oltre a determinare un grave pregiudizio per il venir meno della complessiva situazione di vita legata allo stato di lavoratore. La disposizione vigente che consente di licenziare i docenti al maturare della condizione ricordata concede alla pubblica amministrazione una facoltà e non l'obbligo di recedere dal rapporto lavorativo. E la facoltà di recesso può essere esercitata solo previa indicazione dei criteri generali da seguire nella scelta dei dipendenti da collocare a riposo e delle esigenze sottese alla decisione di recedere dai rapporti di lavoro in corso. Nel caso di specie, l'amministrazione non ha dedotto alcunché nell'atto di recesso limitandosi all'adozione di formule generiche e al mero richiamo alle norme di legge e alle circolari (cfr. Tribunale lavoro Arezzo, Ordinanza 8.6.2010; Tribunale lavoro di Brindisi, Ordinanza 26.7.2010).
Altri Tribunali hanno giudicato che la facoltà di recesso nei confronti dei pubblici dipendenti che abbiano maturato il requisito di quarant'anni di anzianità contributiva deve essere raccordata non solo con i principi di correttezza e buona fede, ma anche con quelli di imparzialità e buon andamento che devono guidare l'attività della PA ex art. 97 Cost., con conseguente obbligo di motivazione da parte del datore di lavoro pubblico. E le disposizioni attuative hanno chiarito che la predetta facoltà di recesso può essere esercitata nell'ambito di processi di riorganizzazione e previa determinazione di criteri generali; conseguentemente, qualora il datore di lavoro non fornisca prova in proposito, il recesso deve considerarsi illegittimo con conseguente ordine cautelare di sospensione del licenziamento (cfr. Tribunale lavoro Roma, Ordinanza 5.1.2010; Tribunale Reggio Emilia, 12.1.2009).
Accanto alle pronunce dei giudici del lavoro riferite - che tentano di ricondurre la facoltà di licenziamento di docenti e ATA concessa ex lege all’amministrazione per il triennio 2009-2011 entro i consueti canoni di correttezza e buona fede, di imparzialità e buon andamento, di obbligo di motivazione - c’è chi denuncia financo la totale l'incostituzionalità della legge sul pensionamento forzoso dei dipendenti pubblici con quaranta anni di servizio contributivo. Ciò per il rilievo che le norme in questione confliggerebbero palesemente con l'articolo 3 della Costituzione in quanto escludono dalla risoluzione forzosa del rapporto di lavoro i magistrati, i professori universitari, e i dirigenti medici di strutture complesse. Tale conflitto con il principio di uguaglianza, essendo tali norme eccezionali - relative ai soli anni 2009, 2010 e 2011 - si paleserà maggiormente allo scadere del 2011 in quanto si creerà un'altra disparità di trattamento tra i soggetti ai quali la risoluzione forzosa del rapporto di lavoro oggi si applica e quelli ai quali, pur trovandosi nelle medesime condizioni dei primi, dopo il 2011, non si applicherà più.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 18 del 29 ottobre – 11 novembre 2010

 

COSI’ LA PENSIONE “FORZATA”
(E’ diventato possibile risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro) Il DL 112/2008 - convertito in legge 133/2008 – avente ad oggetto disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, ha introdotto per le pubbliche amministrazioni la facoltà di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro nei confronti del personale dipendente che abbia raggiunto l’anzianità massima contributiva di quaranta anni.
Nel dettaglio, l’art. 72 comma 11 della legge citata - successivamente sostituito dall’art. 17 comma 35-novies del DL 78/2009, convertito in legge 102/2009 – prevede che per gli anni 2009, 2010 e 2011, le pubbliche amministrazioni, possono, a decorrere dal compimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni del personale dipendente, nell’esercizio di poteri datoriali di diritto privato, risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro e il contratto individuale, anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi. Restano fuori dalla previsione i magistrati, i professori universitari e i dirigenti medici responsabili di struttura complessa.
La norma si inserisce in un più ampio ambito di interventi per il contenimento della spesa per il pubblico impiego, finalizzati ad assicurare una migliore qualificazione dei servizi, e che comprendono la revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico del sistema scolastico vigente. L’attuazione di tali interventi – secondo l’intenzione del medesimo DL 112/20008 – comporterà, nel triennio 2009-2011, la riduzione di un rilevante numero di posti di docenti e di personale ATA. Non solo; le suddette modifiche ordinamentali richiederanno l’impiego di nuove professionalità per le quali dovranno essere programmati interventi di formazione e di riqualificazione professionale, da indirizzare con priorità al personale in servizio che abbia prospettive di continuità lavorativa.
La nuova disciplina trova applicazione dal 5 agosto 2009 – data di entrata in vigore delle norme richiamate, ma possiede un carattere eccezionale, atteso che la legge prevede la risoluzione unilaterale limitatamente agli anni 2009, 2010 e 2011, triennio che corrisponde a quello del piano programmatico di riordino del sistema d’istruzione, e di contenimento della spesa previsti dalla legge 133/2008. La suddetta facoltà, pertanto, potrà essere esercitata nei confronti dei dipendenti che raggiungano l’anzianità massima contributiva entro il triennio di applicazione della norma. Dalla data di compimento dell’anzianità massima contributiva da parte del dipendente, l’Amministrazione può esercitare la risoluzione. E’ lasciata all’Amministrazione stessa la determinazione del momento in cui far cessare il rapporto, in relazione al fabbisogno di personale.
Con riferimento al personale docente, educativo ed ATA, l’Amministrazione assume come prioritaria l’esigenza di evitare l’insorgere di esubero e di favorirne massimamente il riassorbimento. In tal modo le misure di razionalizzazione della spesa, le riforme ordinamentali e la nuova organizzazione della rete scolastica, potranno trovare applicazione senza gravi ripercussioni sugli attuali livelli di occupazione. A tal fine i Direttori degli Uffici Scolastici Regionali forniscono ai dirigenti scolastici, in tempo utile per l’adozione dei provvedimenti di competenza e, comunque, entro il 30 gennaio di ciascuno degli anni di applicazione della legge, tutti gli elementi e i dati dai quali desumere il possesso da parte dei soggetti interessati del requisito dei quaranta anni di anzianità contributiva. Qualora i Dirigenti Scolastici verifichino l’esistenza di tale condizione sarà inoltrato, dagli stessi, il dovuto preavviso di risoluzione del rapporto di lavoro. Se poi, nel periodo di vigenza della legge, l’interessato abbia titolo al raggiungimento di un ulteriore scatto stipendiale, fermo restando l’obbligo del preavviso, potrà essere differita la decorrenza della risoluzione unilaterale del contratto che avrà luogo dopo il conseguimento del miglioramento retributivo.
Per quanto concerne i dirigenti scolastici, per gli incarichi conferiti dopo l’entrata in vigore della disposizione in esame, la riserva di avvalersi della facoltà di recesso va esplicitata nell’ambito del provvedimento di conferimento dell’incarico. In sede di prima applicazione, con riferimento agli incarichi in essere, in presenza di situazioni di esubero, nonché nei confronti di coloro che siano valutati negativamente, l’Amministrazione procederà in ogni caso alla risoluzione del rapporto di lavoro, dandone comunicazione all’interessato nei termini previsti. Negli altri casi il direttore dell’Ufficio scolastico regionale, potrà motivare la mancata risoluzione del rapporto di lavoro nei confronti di coloro che abbiano maturato i quaranta anni di contributi, sulla base di eventuali vacanze negli uffici dirigenziali, o di particolari situazioni che rendano opportuna la continuità di direzione da parte degli attuali titolari, nonché della mancanza nelle graduatorie di aspiranti alla nomina a dirigente scolastico. Domenico Barboni Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 7 dell’1 - 14 aprile 2010 

 

NORME VANTAGGIOSE PER I PRESIDI

(Risoluzione del rapporto di lavoro penalizzante per prof a Ata)

La facoltà per l’amministrazione, di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro, anche con i dirigenti, a decorrere dal compimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni del personale dipendente, nel triennio 2009-2011, è disciplinata com’è noto dall’art. 72, comma 11, DL 25-6-2008 n. 112 (come successivamente modificato). Dopo tale previsione generale di legge sono sopraggiunte direttive e circolari esplicative che di fatto hanno dettato una disciplina diversificata e di favore per i dirigenti scolastici, rispetto al personale docente e ATA.
In particolare, solo con riguardo al recesso dal rapporto di lavoro con personale docente e ATA quelle norme hanno fornito criteri di ricorso al licenziamento forzoso poco stringenti e discrezionali, assumendo la sola prioritaria esigenza di evitare l’insorgenza di esubero nelle rispettive classi di concorso, in vista del piano programmatico di riordino del sistema dell’istruzione, e degli obiettivi di contenimento della spesa.
Al contrario, con specifico riferimento alle condizioni d’applicazione della norma in parola ai dirigenti scolastici, le disposizioni ministeriali precisano che la risoluzione forzosa del rapporto di lavoro s’impone solo in presenza di situazioni di esubero conseguenti alla razionalizzazione della rete scolastica, nonché nei confronti di coloro per i quali sia valutata negativamente, con adeguata e puntuale documentazione, la consistenza e la qualità del servizio prestato; per contro, si può mantenere il rapporto di lavoro pur nei confronti dei dirigenti scolastici che abbiano maturato i quaranta anni di contributi, sulla base del numero di eventuali uffici dirigenziali vacanti nell’ambito regionale, per i quali si dovrebbe far ricorso all’istituto di reggenza, o delle particolari situazioni che rendano opportuna la continuità di direzione da parte degli attuali titolari, anche in ragione della loro professionalità ed esperienza, nonché della mancanza nelle graduatorie di aspiranti alla nomina a dirigente scolastico (cfr. direttiva MIUR n. 94 del 4.12.2009).
Ugualmente, in relazione all’istituto del trattenimento in servizio fino al sessantasettesimo anno di età dei dirigenti scolastici, una nota del ministero ha chiarito che per i dirigenti può ancora applicarsi detto trattenimento in servizio a prescindere dal limite di anzianità contributiva dei quarant’anni, ferma la possibilità riconosciuta all'amministrazione di negare il mantenimento in servizio solo in presenza di esuberi a livello regionale o di valutazione negativa (cfr. nota n. 2167/2010). Dove, di contro, per il personale docente e ATA altre disposizioni ministeriali hanno chiarito che l’istanza di trattenimento in servizio non oltre il compimento del sessantasettesimo anno di età può essere accolta, in assenza di esubero, solo nel caso in cui gli interessati non raggiungano l’anzianità contributiva di quarant’anni nel triennio di riferimento (nota n. 1053/2010).
A ciò s’aggiunge che è opinione concorde di giurisprudenza che anche dopo la contrattualizzazione del rapporto d’impiego, l'amministrazione non ha la facoltà di recedere a proprio piacimento dal rapporto dirigenziale pubblico, in quanto i principi costituzionali impediscono la totale assimilazione dello status dei dirigenti pubblici a quelli privati, e impone di presidiare il rapporto di particolari garanzie di stabilità onde salvaguardare i precetti di imparzialità e di buon andamento. Il personale dirigenziale quindi diritto di impugnare il licenziamento illegittimo, non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo, e di ottenere la reintegra nel posto di lavoro. In contrario non può eccepirsi l'asserita natura fiduciaria del rapporto che lega il personale dirigenziale al datore di lavoro in quanto, a differenza del settore privato, la pubblica amministrazione non ha facoltà di scegliere liberamente il personale dirigenziale – altra cosa è il conferimento dei singoli incarichi - poiché per esso vige la regola del concorso sancita dall’art. 97 della Cost. (cfr. Trib. Napoli, 7.1.2003).

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 18 del 29 ottobre – 11 novembre 2010

 

QUANDO LA DECISIONE PUO’ SLITTARE
(Chi non raggiunge l’ultimo scatto stipendiale può fare domanda)

Il comma 7 dell’art. 72 del DL 112/2008 ha modificato il regime del trattenimento in servizio dei pubblici dipendenti, soggetto ora a valutazione discrezionale dell’amministrazione la quale - in raccordo con il comma 11 della medesima norma - può accogliere l’istanza esclusivamente nei casi in cui l’interessato non raggiunga l’anzianità contributiva di quaranta anni.
L’art. 16 comma 1 del decreto legislativo 503/1992 - Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici - come modificato, prevede ora: “È in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio […], per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi […]”.
Mentre secondo la disciplina previgente, in caso di domanda, l’amministrazione non era titolare di alcun potere discrezionale nel disporre il trattenimento, il quale rappresentava un diritto per il dipendente - nel concorso dei requisiti di legge -, in base al nuovo regime l’istanza di trattenimento è soggetta a valutazione discrezionale e quindi può non essere accolta dal datore di lavoro. La valutazione deve tener conto di alcune condizioni oggettive: le esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione, la particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti e l’efficiente andamento dei servizi.
L’applicazione della disciplina ora esaminate deve essere raccordata con le novità sulla risoluzione unilaterale del contratto di lavoro contenuta nel comma 11 dell’art. 72, del DL citato, in riferimento a quei dipendenti che hanno maturato il requisito dell’anzianità contributiva di quaranta anni. In particolare, alle considerazioni circa gli effetti degli interventi di razionalizzazione della rete scolastica ed alla duplice esigenza di evitare il determinarsi di situazioni di esubero riguardanti il personale della scuola e di favorire il riassorbimento dei soprannumerari, si accompagna la considerazione che il personale di cui trattasi, che ha già maturato i 65 anni di età, non si trova nella condizione di poter assicurare una continuità lavorativa compatibile con un’attività di formazione e riqualificazione professionale necessarie in dipendenza delle modifiche ordinamentali in corso di realizzazione. Pertanto, l’istanza di trattenimento in servizio fino al compimento dei 67 anni di età potrà essere accolta esclusivamente nei casi in cui l’interessato non raggiunga l’anzianità contributiva di quaranta anni. In relazione ai dirigenti scolastici, pur facendo riferimento in via generale ai criteri sopra indicati, attesa la specificità della funzione esercitata e l’autonomia del relativo contratto di lavoro, si valuteranno ulteriormente la circostanza che non si sia esaurita per ciascun dirigente l’efficacia temporale del contratto in atto; l’insussistenza nel triennio di eventuali situazioni di esubero; la consistenza e qualità del servizio prestato. Tutto ciò al fine di assicurare la realizzazione della delicata fase transitoria dei processi di innovazione avviati, e una migliore qualificazione del servizio. Per la più utile concessione della proroga fino al compimento del 67° anno di età, si terrà poi in debito conto sia il numero delle presidenze che si renderanno vacanti, sia l’eventuale esaurimento delle graduatorie da cui attingere per il conferimento dell’incarico di dirigente scolastico.
Infine, in linea con i principi enunciati dalla Corte costituzionale, in caso di domanda, l’amministrazione è comunque tenuta a disporre il trattenimento in servizio per quei dipendenti che non hanno ancora raggiunto il requisito di contribuzione minimo per la maturazione del diritto a pensione (Corte costituzionale, n. 282 del 1991).
 

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 7 dell’1 - 14 aprile 2010

 

GIUDICI D’ACCORDO SULL’ASSEGNO
(Interpretazione convergente tra i magistrati della Corte dei conti)

Il diritto del pensionato pubblico all’applicazione degli aumenti secondo il coefficiente ISTAT calcolato su una IIS “teorica” intera, invece che su quella effettiva, decurtata in quarantesimi, a decorrere dalla data del raggiungimento dell'età pensionabile, è riconosciuto dalla giurisprudenza prevalente (si vedano da ultimo le recentissime decisioni Corte dei Conti per la Lombardia del 19 aprile 2010, favorevoli a dichiarare il diritto all’applicazione del citato meccanismo perequativo).
A tale proposito, e a titolo esemplificativo, si legga quanto correttamente esplicato in una precedente sentenza della Corte dei Conti Lombardia 393 del 2006: “Ai soli fini del calcolo della quota di incremento della pensione concettualmente riferibile alla perequazione della I.I.S. - e ferma restando la corresponsione in quarantesimi della I.I.S. effettivamente in godimento, alla quale l'aumento “intero” va a sommarsi - deve considerarsi una I.I.S. fittiziamente calcolata nella intera misura. Inoltre, tenuto conto della ratio della norma, che è quella di omogeneizzare gli incrementi per tutti i pensionati di una certa età - si rammenta che per “misura intera” deve intendersi non tanto l'ammontare dell'I.I.S. corrente alla data del pensionamento (I.I.S. storica), bensì l'importo attualizzato al periodo di riferimento della perequazione (comprensivo, cioè, delle variazioni medio tempore intervenute sulla I.I.S. “piena”).
Ugualmente concorde è l’opinione dei giudici delle pensioni sulla circostanza che i successivi criteri introdotti per il calcolo della perequazione automatica non abbiano innovato sul vigente sistema di adeguamento dell'IIS sancito dall'articolo 10 del decreto legge 17 del 1983, specie in ragione della finalità della norma che era quella di riconoscere ai pensionati “anticipati”, una volta compiuta l’età dovuta, un aumento dell’i.i.s. pari a quello spettante agli altri pensionati. L’interpretazioni illustrata, sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria, è altresì idonea a salvaguardare le ragioni di fondo sottese alla stessa riduzione dell'IIS in quarantesimi poiché, in ogni caso, la quantificazione dell'IIS percepita dai titolari di pensione di anzianità rimane comunque inferiore alla misura prevista per i pensionati cessati al raggiungimento del limite d'età, trovando ciò razionale giustificazione nella diversità sostanziale tra le posizioni soggettive sottostanti.
Ancora più chiara si propone la decisione 27/2006 della Corte dei Conti Piemonte: “ai soli fini del calcolo della quota di incremento della pensione concettualmente riferibile alla perequazione della i.i.s., e ferma restando la corresponsione in quarantesimi della i.i.s. effettivamente in godimento (alla quale l’aumento “intero” va a sommarsi), deve riconoscersi al pensionato (verificandosi le condizioni di cui al quarto comma, citato) una perequazione periodica calcolata sulla pensione comprensiva non già della i.i.s. “effettiva” in pagamento, bensì di una i.i.s. fittiziamente riconosciutagli nella intera misura. Inoltre, tenuto conto della ratio della norma, come sopra ricostruita, per “misura intera” deve intendersi non tanto quella storica, riferita alla i.i.s. corrente alla data del pensionamento, quanto quella attualizzata al periodo oggetto di perequazione (cioè comprensiva delle variazioni nel frattempo intervenute sulla i.i.s. “piena”). L’effetto pratico di questa interpretazione consiste nel riconoscere al pensionato, compiuta l’età prevista, un incremento periodico sulla i.i.s. (appunto: la sola “variazione”) pari a quello che gli sarebbe corrisposto se l’i.i.s. gli fosse stata concessa ab origine nella misura intera; così operando, l’incremento della i.i.s. è reso pari, tempo per tempo, a quello corrisposto a chi era andato in quiescenza con il massimo dell’anzianità; lo stesso beneficio è in tal modo conservato nel “nuovo” sistema della perequazione automatica esattamente come in quello “vecchio” del valore unitario del punto di contingenza, ferma restando l’i.i.s. “effettiva” in pagamento (che resta ragguagliata ai “quarantesimi”)”.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 10 del 13 – 26 maggio 2010

 

RICOSTRUZIONE IN BUSTA PAGA
(La valutazione del servizio prestato aggiorna le tabelle retributive)

Per ricostruzione di carriera del personale della scuola si intende la valutazione dei servizi di ruolo e non di ruolo prestati anteriormente alla data di decorrenza giuridica della nomina nel ruolo attuale, ai fini dell’inquadramento retributivo e della progressione del trattamento economico attraverso il passaggio tra posizioni stipendiali.
Sulla base dell’anzianità riconosciuta, il personale scolastico viene inserito nelle tabelle retributive, previste dall’ordinamento vigente al momento in cui tale operazione si effettua, con l’attribuire della posizione stipendiale corrispondente all’anzianità posseduta. Se l’anzianità posseduta è intermedia tra due posizioni retribuite, viene attribuita la posizione tabellare inferiore, mentre l’eccedenza di anzianità rispetto a quella della posizione attribuita sarà utilizzata per la maturazione anticipata della posizione retributiva successiva per semplice decorso di tempo.
In particolare, il docente che abbia stipulato un contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato, al momento del superamento del periodo annuale di prova e formazione, può chiedere il riconoscimento dei servizi preruolo – o resi in diverso ruolo - valutabili ai fini della carriera, ossia della progressione stipendiale. In tal modo, per effetto della ricostruzione di carriera, il suo stipendio otterrà un aumento a decorrere dal momento della conferma in ruolo.
Dopo la riforma dell’autonomia, è il dirigente dell’istituzione scolastica l’organo titolare a provvedere all’emanazione del decreto di ricostruzione della carriera. Nel caso che la scuola di servizio sia diversa da quella di titolarità, le domande di ricostruzione devono essere trasmesse a quest’ultima. Rientra nella competenza del dirigente la predisposizione d’ufficio di eventuali successivi decreti di inquadramento e di modifica della progressione economica a seguito di variazione di stato giuridico e aumenti contrattuali.
La ricostruzione di carriera avviene a domanda dell’interessato, e richiede la sussistenza di alcuni requisiti. In primo luogo occorre il titolo di studio: non si possono riconoscere quei servizi per i quali il docente non possedeva il prescritto titolo di studio, stabilito dalla normativa vigente o comunque riconosciuto valido da apposito provvedimento legislativo al momento della prestazione del servizio stesso per l’insegnamento a cui si riferisce l’abilitazione per l’inclusione nelle graduatorie. Ovviamente l‘interessato deve possedere il prescritto titolo di studio al momento della prestazione del servizio, l’eventuale sanatoria a posteriori non sono consentite. Altro requisito rilevante è la qualifica: per procedere alla valutazione dei servizi prestati anteriormente alla nomina in ruolo la qualifica che deve essere non inferiore a buono o senza demerito, a secondo dei gradi di scuola. Infine, non sono riconoscibili per legge i servizi per i quali l’interessato già goda di una pensione.
Non tutti i servizi resi in altri ruoli sono valutabili ai fini della carriera. Nel dettaglio, per i docenti di scuola secondaria, sono riconoscibili i servizi non di ruolo prestati nelle scuole secondarie, e i servizi di ruolo e non di ruolo prestati nelle scuole elementari; non è riconoscibile il servizio prestato nella scuola materna. Per i docenti della scuola elementare, sono valutabili i servizi non di ruolo resi nelle scuole elementari, nelle scuole secondarie, nonché il servizio di ruolo e non di ruolo prestato nelle scuole materne.
I servizi si riconoscono, a prescindere dal numero di ore settimanali, solo per anno scolastico intero, le frazioni di durata inferiore ad un anno di servizio si trascurano. La durata richiesta per la validità dell’anno scolastico pre ruolo è stata sancita in almeno 180 giorni oppure se il servizio è stato prestato interrottamente dal primo febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio.
La carriera del personale scolastico può anche avere dei ritardi rispetto alla normale progressione. In particolare, l’art. 79, CCNL Comparto scuola 2007, premette che il passaggio tra una posizione stipendiale e l’altra - ai fini della progressione del trattamento economico - potrà essere acquisito al termine dei periodi previsti dal medesimo contratto, sulla base dell’accertato utile assolvimento di tutti gli obblighi inerenti alla funzione. Il servizio si intende reso utilmente qualora il dipendente, nel periodo di maturazione della posizione stipendiale, non sia incorso in sanzioni disciplinari definitive implicanti la sospensione dal servizio; in caso contrario il passaggio alla posizione stipendiale superiore potrà essere ritardato, per mancata maturazione dei requisiti richiesti, nelle fattispecie e per i periodi seguenti: due anni di ritardo in caso di sospensione dal servizio per una durata superiore ad un mese per il personale docente e in caso di sospensione del lavoro di durata superiore a cinque giorni per il personale ATA; un anno di ritardo in caso di sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a un mese per il personale docente e fino a cinque giorni per il personale ATA.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 1 dell’8 - 21 gennaio 2010

 

IL GINEPRAIO PENSIONISTICO

Nel volgere di pochi anni si è assistito ad una vera e propria rivoluzione del regime pensionistico dei pubblici dipendenti: sono ragionevolmente recenti i tempi in cui si poteva conseguire il diritto a pensione a prescindere dall’età anagrafica, con una minima anzianità contributiva. Sistema pensionistico tuttora al centro di ulteriori attenzioni e preoccupazioni confliggenti. Il sistema pensionistico precedente - troppo gravoso per la collettività – è stato riformato principalmente attraverso due correttivi: un freno ai prepensionamenti, realizzato attraverso l’innalzamento dell’età anagrafica pensionabile, e la penalizzazione del prepensionamento con diritto a pensione (c.d. pensione di anzianità); un sistema di calcolo della pensione cha da un sistema retributivo – nel quale la pensione è calcolata sulla base degli ultimi stipendi - diventa contributivo – nel quale la pensione è calcolata sulla base dei contributi versati durante tutto l’arco della vita lavorativa. Dal punto di vista normativo, la riforma ha comportato la sedimentazione di norme sull’impianto base – costituito dal testo unico di cui al DPR 29.1.1973 n.1092 – il quale fino ad allora aveva offerto all’interprete una disciplina armonica del sistema pensionistico del pubblico impiego; con il susseguirsi degli interventi di modifica, gli operatori sono stati via via obbligati a sforzi interpretativi sempre maggiori. In particolare, si è assistito alla ridistribuzione delle competenze in materia di atti pensionistici, con l’effetto che la gestione - cioè il pagamento - dei trattamenti pensionistici ai dipendenti dello Stato è stata affidata all’Inpdap, mentre i provvedimenti di valutazione dei periodi e servizi, e di attribuzione e determinazione di pensione provvisoria e definitiva, sono rimasti alle amministrazioni di appartenenza. Queste ultime, con l’adozione del provvedimento di pensione definitiva esauriscono gli adempimenti di pertinenza, spettando l’applicazione materiale del trattamento pensionistico all’ente pagatore, che è appunto l’Inpdap. Ragionevolmente, nelle more della definizione del trattamento pensionistico, l’ente erogatore corrisponde al pensionato un trattamento provvisorio determinato in relazione ai servizi risultanti dalla documentazione in possesso, e salvo recupero in sede di liquidazione del trattamento definitivo. Infatti, qualora l’importo della pensione definitiva risultante dal decreto di concessione non sia uguale a quello attribuito in via provvisoria, l’Inpdap provvede alle necessarie variazioni, facendo luogo al conguaglio a credito o a debito e all’eventuale recupero dell’indebito pagato. Da ciò discende che il pensionato che percepisce il trattamento pensionistico provvisorio si trova in una situazione di incertezza, anche per diversi anni, consapevole del fatto che potrebbe vedersi in futuro richiedere le somme indebite ricevute dall’ente, all’atto della liquidazione del trattamento definitivo. Somme che, considerati i tempi della burocrazia, possono raggiungere importi considerevoli, rendendo il recupero nei confronti del dipendente a riposo molto gravoso.
Diverso – almeno formalmente - è il discorso relativo alla posizione del pensionato in presenza del provvedimento di pensione definitiva. Infatti, il carattere definitivo del trattamento impone maggiori garanzie a tutela della certezza delle situazioni di affidamento createsi. E’ perciò previsto che il provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza può essere revocato o modificato dall'ufficio che lo ha emesso solo in poche tassative ipotesi (errore di fatto, omissione, errore di calcolo), e comunque non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso. Ovvero quando siano stati rinvenuti documenti nuovi, o documenti riconosciuti o dichiarati falsi, entro il termine di sessanta giorni dal rinvenimento. In ogni caso, allorché dopo la revoca e la modifica del provvedimento definitivo risultino riscosse rate di pensione non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che la revoca o la modifica siano state disposte in seguito all'accertamento di fatto doloso dell'interessato. Quindi, in linea teorica, dopo l’adozione del provvedimento di pensione definitiva sono esauriti gli adempimenti di liquidazione del trattamento, restando l’applicazione materiale da parte dell’ente pagatore – salva la sola possibilità di modificare o revoca il provvedimento nelle ipotesi tassative indicate, e comunque entro i termini perentori richiamati, e comunque con esclusione del recupero dell’eventuale indebito. La posizione del dipendente in pensione è perciò maggiormente garantita e certa, anche se non mancano le illegittime iniziative di recupero da parte dell’amministrazione, anche oltre i limiti temporali previsti dalla legge, le quali obbligano i pensionati a domandare tutela all’autorità giudiziaria competente, e, in particolare, alla Corte dei Conti quale giudice unico delle pensioni dei dipendenti pubblici.

Domenico Barboni

Pubblicato su “il sole 24 ore scuola” del 14 maggio 2004.

 

LA CORRESPONSIONE ERRONEA

L’orientamento giurisprudenziale prevalente – ribadito da ultimo, fra le altre, dalla sentenza n. 1/2004 della Corte dei Conti, sezione siciliana – giudica non ripetibili dall’amministrazione le somme indebitamente percepite dal pensionato in buona fede. In particolare, si ritiene che in ipotesi di somme riscosse a titolo di pensione definiva per errore dell’amministrazione rilevi la buona fede del percettore, e che altresì occorra un’attenta considerazione degli interessi in conflitto. Tale orientamento trae origine dalle norme vigenti in materia, secondo le quali, in caso di riscossione di ratei di pensione risultati non dovuti a seguito di revoca o modifica del provvedimento attributivo definitivo, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che la revoca o la modifica siano state disposte in seguito all'accertamento di fatto doloso dell'interessato. Con riferimento alla buona fede, la giurisprudenza afferma che essa coincide con la mancata conoscenza da parte del pensionato dell'errore in cui è incorsa l'amministrazione e con l'impossibilità di riconoscere l’errore con i criteri dell'ordinaria diligenza. La buona fede del percettore non può porsi in dubbio allorché questi non abbia indotto in errore l'Amministrazione - attraverso, ad esempio, false od equivoche dichiarazioni -, e non possa accorgersi, in base a criteri di ordinaria diligenza, dell'errore commesso dalla amministrazione nella liquidazione della pensione cui aveva diritto. Sul punto della ponderazione degli interessi in conflitto, la giurisprudenza dominante ritiene che debba prevalere l'interesse del dipendete a riposo, considerata la natura alimentare del reddito pensionistico, destinato al soddisfacimento dei bisogni ordinari della vita che verrebbero inevitabilmente pregiudicati dalla ripetizione dell'indebito riscosso. A ciò s’aggiunga che nella maggioranza dei casi intercorre un lungo lasso di tempo tra la corresponsione erronea delle somme a titolo di pensione definitiva, e l’iniziativa di recupero da parte dell’amministrazione, con l’effetto che l’indebito raggiunge cifre spesso ragguardevoli, rendendo vieppiù traumatica l’eventuale ripetizione nei confronti del pensionato. Ma non solo: proprio il lungo tempo trascorso crea un affidamento del dipendente a riposo sulla correttezza e definitività del trattamento percepito, e rafforza la sua buona fede. A tale ultimo proposito, occorre però ricordare che il trattamento di quiescenza definitivo può essere revocato o modificato dall'ufficio che lo ha emesso entro termini ben precisi. In particolare, il provvedimento può essere revocato o modificato non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso, e solo quando vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti, ovvero quando vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennità o nell'applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l'ammontare della pensione, assegno o indennità. Il trattamento pensionistico definitivo può altresì essere modificato o revocato nel termine di sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi, o dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità di documenti, quando appunto siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione del provvedimento, o quando sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi. La giurisprudenza ha chiarito che i termini indicati delle disposizioni citate sono da ritenersi perentori, ed ha enunciato il conseguente principio di immodificabilità del trattamento pensionistico fuori dai casi all’uopo espressamente previsti. La stessa giurisprudenza ha comunque precisato che detti termini perentori valgono unicamente per le modifiche peggiorative del trattamento pensionistico e non anche per eliminare illegittimità che abbiano prodotto pregiudizio a carico del pensionato.

Domenico Barboni

Pubblicato su “il sole 24 ore scuola” del 14 maggio 2004.

 

BENEFICI NON CUMULABILI PER CHI RESTA IN SERVIZIO

La generale facoltà di permanenza in servizio dei pubblici dipendenti per un biennio oltre il termine normale per il collocamento a riposo non può essere esercitata nel caso in cui altre disposizioni abbiano già consentito, a talune categorie, straordinarie elevazioni di detto limite. In particolare, il beneficio della permanenza in servizio per un biennio non è cumulabile con quello previsto per il solo personale insegnante di protrarre il momento di cessazione dal servizio fino al limite di 70 anni, per raggiungere il massimo di anzianità per il diritto alla pensione.
La vicenda
Il ricorrente, all’epoca preside di istituto, ha impugnato innanzi al TAR il provvedimento con il quale l’amministrazione scolastica ha respinto la sua domanda di mantenimento in servizio per un biennio fino al raggiungimento del periodo massimo, in quanto già beneficiario di proroga del collocamento a riposo, ai sensi delle normativa speciale dettata per il personale della scuola. Il TAR ha accolto il ricorso in forza dell’assunto che non vi sarebbe un espresso divieto di cumulo del beneficio generale della permanenza in servizio per un biennio oltre il limite di età previsto per il collocamento a riposo dei dipendenti statali, con quello volto a consentire al personale insegnante di protrarre il momento di cessazione dal servizio fino al limite di 70 anni, per raggiungere il massimo di anzianità per il diritto alla pensione. La norma generale, nel consentire la proroga del servizio per un biennio oltre i limiti di età previsti per i dipendenti, si riferirebbe non ai limiti astratti di età previsti dalle norme, ma ai limiti di età concreti per ciascun dipendente, anche se superiori ai limiti astratti, in virtù di altre disposizioni di legge. Avverso la sentenza del TAR, l’amministrazione scolastica ha proposto appello, accolto dal Consiglio di Stato con l’affermazione del principio su riportato, secondo il quale il trattenimento in servizio previsto in generale per tutti i dipendenti pubblici non è cumulabile con analoghe previsioni contenute in altre norme dell’ordinamento, e, nella specie, trova applicazione solo con riferimento all’età normalmente prevista per il collocamento a riposo della categoria del personale insegnante.
Motivi della decisione
Il giudice d’appello risolve la questione del cumulo tra la generale facoltà di permanenza in servizio per un biennio oltre il termine normale di collocamento a riposo, con eventuali benefici di elevazione di detto limite, previsti di per talune categorie di dipendenti pubblici, seguendo l’orientamento negativo già proprio del Consiglio di Stato. Secondo quell’opinione, il legislatore, in occasione del riordinamento del sistema previdenziale per i dipendenti pubblici e privati, ha previsto la facoltà per i dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio oltre i limiti di età per un periodo massimo di un biennio. Per quel che riguarda il collocamento a riposo del personale della scuola, la legge ha sì concesso che ove alla scadenza del termine (1 settembre successivo alla data di compimento del 65° anno) il dipendente non abbia raggiunto il minimo o il massimo della pensione possa rimanere in servizio fino al raggiungimento di tale minimo o massimo e, comunque, non oltre il 70° anno di età. Tuttavia, tale elevazione opera in presenza di singole situazioni di anzianità di servizio e previa richiesta dell’interessato; in mancanza, permane l’obbligo del collocamento a riposo al compimento del 65° anno, che costituisce, dunque, il limite ordinario d’età per il personale insegnante. Dal tenore delle norme e dall'intero sistema normativo in cui esse si inseriscono, il Consiglio di Stato deduce che il trattenimento in servizio per un biennio deve essere riferito all'età normalmente prevista per il collocamento a riposo delle varie categorie di pubblici dipendenti, con esclusione di ogni considerazione di eventuali e straordinarie elevazioni del detto limite. L'interpretazione che esclude la cumulabilità dei benefici di cui sopra rispetta, oltre che il dato letterale della norma anche fini di omogeneità di trattamento. A parere dell’organo giudicante, la tesi opposta sostenuta dal TAR determinerebbe una disparità non giustificata dal rispetto di posizioni giuridiche già acquisite: invero, nella specie, non si viene a pregiudicare un beneficio attribuito all’interessato, bensì si evita semplicemente che a quel beneficio se ne aggiunga un altro. Il Consiglio di Stato conclude che, dovendo il preside appellato fare riferimento ai limiti di età previsti in via generale dall'ordinamento della categoria di pubblici dipendenti cui appartiene (che sono fissati nel 65º anno di età), è rispetto a tali limiti che avrebbe potuto chiedere il prolungamento del servizio per un biennio, con la conseguenza che, essendo rimasto in servizio oltre il suddetto termine (e in particolare fino al settantesimo anno di età) per effetto di una norma di carattere particolare, non può pretendere di applicare il beneficio dell’ulteriore biennio a tale più elevato limite di età. Aggiunge, a conforto delle proprie conclusioni, l’opinione della Corte Costituzionale, che ha lucidamente confermato che “la facoltà di permanere in servizio per un biennio oltre i limiti di età previsti per il collocamento a riposo…si riferisce ad un biennio oltre i limiti di età per il collocamento in pensione, previsti in via normale per la determinata categoria di personale e non in riferimento ai limiti derivanti da ulteriori benefici di proroga o di trattenimento in servizio per conseguire il minimo pensionabile o il massimo del servizio valutabile, come risulta evidente dalla formulazione della norma che adotta l'espressione limite di età, con evidente riferimento a quelli ordinari per ciascuna categoria e non a quelli di prolungamento del servizio oltre i limiti in base a particolari benefici previsti da altre disposizioni di favore” (Ord. Corte cost., 13 giugno 2000, n. 195).

Anna Nardone

Pubblicato su “il sole 24 ore scuola” del 29 ottobre 2004.

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