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Pensioni, stipendi e salari

POSSIBILE SCONTRO TRA MANOVRE
(Previdenza “schiacciata” dallo stop alla spesa per l’impiego)

La manovra di Ferragosto rischia di contraddire il dispositivo del luglio scorso (Dl 6.7.2011 per il contenimento della spesa in materia di impiego pubblico). La querelle su criteri e limiti di età e di maggior carico che ne deriva pone tutto in discussione.
La norma generale di riferimento in materia di cessazione dal servizio del personale scolastico è l’art. 1, comma 1, DPR 351/1998, recante norme per la semplificazione dei procedimenti in materia di cessazione dal servizio e di trattamento di quiescenza del personale della scuola, a mente del quale i collocamenti a riposo per limiti di età del personale del comparto Scuola con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall'inizio dell'anno scolastico o accademico successivo alla data di compimento del sessantacinquesimo anno di età ovvero al termine del periodo di trattenimento in servizio. A tal fine non occorre un provvedimento formale dell'Amministrazione.
Rispetto a tale previsione, l’art. 72, comma 11 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 – convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni – dispone che eccezionalmente per il triennio 2009 –2011, le pubbliche amministrazioni (comprese quelle scolastiche) possono licenziare unilateralmente il personale dipendente (anche dirigenziale) a decorrere dal compimento dell'anzianità massima contributiva di quaranta anni, nell'esercizio di poteri di diritto privato, con un preavviso di sei mesi, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenza dei trattamenti pensionistici. Restano esclusi dalla disposizione i magistrati, i professori universitari e i dirigenti medici responsabili di struttura complessa.
Con direttiva 13 del 2.2.2009 il ministero dell’Istruzione precisa che la disposizione di legge in esame si colloca nell’ambito degli interventi di contenimento della spesa pubblica, con particolare riferimento alla spesa per il personale, e si prefigge di evitare il concretizzarsi o il permanere di situazioni che determinerebbero una ingiustificata maggiore spesa per il bilancio del Ministero.
La direttiva specifica che ai fini dell’applicazione dell’art. 72, comma 11, che ha attribuito all’Amministrazione la facoltà di risoluzione del rapporto di lavoro per compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, l’Amministrazione assume come prioritaria l’esigenza di evitare situazioni di esubero del personale nella classe di concorso, posto o profilo di appartenenza, nell’arco del triennio 2009-2011 durante il quale verranno poste in essere le riforme ordinamentali e la nuova organizzazione della rete scolastica. A tal fine i Direttori degli Uffici Scolastici Regionali, sulla base dei dati acquisiti al sistema informativo del MIUR, forniscono ai dirigenti scolastici, in tempo utile per l’adozione dei provvedimenti di competenza, tutti gli elementi utili a determinare l’esistenza o meno della situazione di esubero e la sussistenza, in capo a ciascuno dei soggetti interessati, del requisito dei 40 anni di anzianità contributiva. La risoluzione prevista dal succitato comma 11 dell’art. 72 è immediatamente applicata (oltre che nei predetti casi di esubero) anche nei confronti del personale che versi in particolari situazioni: collocamento permanente fuori ruolo per motivi di salute; valutazione negativa, con adeguata e documentata motivazione, della consistenza e qualità del servizio prestato.
Da ultimo, con la manovra del luglio scorso - DL 6.7.2011 n. 98 convertito in L 15.7.2011 n. 111 - all’art. 16 (avente ad oggetto “Contenimento delle spese in materia di impiego pubblico”) si è previsto che in tema di risoluzione del rapporto di lavoro l'esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal comma 11 dell'articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l'amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri di applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo.
Occorre attendere le prime pronunce per vedere se la novità legislativa determinerà un cambio di orientamento nella giurisprudenza del lavoro – sinora favorevole al personale licenziato.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 14 del 2 - 15 settembre 2011
 

Commento giurisprudenziale

SUL PART-TIME DECIDE IL DATORE DI LAVORO
(Devono sussistenre esigenze organizzative compatibili con la richiesta)

Il dipendente non ha diritto alla trasformazione del contratto in part-time se a giudizio del datore di lavoro non sussistono le esigenze organizzative che lo richiedano. Più precisamente, va escluso il diritto del dipendente di sindacare le decisioni datoriali in ordine alla sussistenza o meno delle esigenze organizzative compatibili con prestazioni rese in regime di tempo parziale, potendosi solo ravvisare una posizione di diritto soggettivo suscettibile di tutela relativamente alle modalità di esercizio del potere del datore di scegliere a chi accordare il part-time tra quei dipendenti che ne abbiano fatto richiesta. Così decide la Corte di cassazione con decisone 4 maggio 2011, n. 9769.
Si ricorda che per il personale scolastico la contrattazione collettiva prevede che l’amministrazione deve tener conto delle particolari esigenze di ciascun grado di istruzione, ed assicurare l'unicità del docente per ciascun insegnamento e in ciascuna classe o sezioni di scuola dell’infanzia, nei casi previsti dagli ordinamenti didattici, organizzando secondo tali finalità le ore di insegnamento che costituiscono le cattedre. Si rammenta altresì che l'amministrazione costituisce rapporti di lavoro a tempo parziale sia all'atto dell'assunzione, sia mediante trasformazione di rapporti a tempo pieno su richiesta dei dipendenti interessati, nei limiti massimi del 25% della dotazione organica complessiva di personale a tempo pieno. Il tempo parziale può essere realizzato con prestazione di servizio ridotta in tutti i giorni lavorativi (tempo parziale orizzontale); con prestazione su alcuni giorni della settimana del mese, o di determinati periodi dell'anno (tempo parziale verticale); con prestazione risultante dalla combinazione delle due modalità indicate (tempo parziale misto). Infine si precisa che per il personale in servizio con rapporto a tempo parziale vige un regime delle incompatibilità derogatorio: infatti le norme prevedono che al personale interessato è consentito – ferma l’autorizzazione del dirigente scolastico, l'esercizio di tutte le attività lavorative purchè non arrechino pregiudizio alle esigenze di servizio e non siano incompatibili con le attività d'istituto.
La vicenda
Un dipendente che si era visto rigettare per ragioni organizzative la domanda di trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time, chiedeva l'accertamento del suo diritto alla richiesta trasformazione del rapporto, con condanna del datore di lavoro ad eseguire la trasformazione medesima.
Resisteva la parte datoriale eccependo che il dipendente non potesse vantare una posizione giuridica qualificabile come diritto, perché, ai sensi delle disposizioni contrattuali, il datore di lavoro era soltanto facultizzato — e non obbligato - ad accogliere domande di trasformazione del rapporto a tempo parziale.
La Cassazione respinge le domande del lavoratore, pur mostrando di non condividere in pieno la posizione del datore di lavoro circa l’ampiezza del proprio potere di accordare o meno il regime di part- time ai propri dipendenti.
Motivi della decisione
Secondo la Cassazione, la posizione del lavoratore aspirante alla trasformazione del proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale non può essere qualificata in termini di diritto soggettivo, ciò in quanto, in via prioritaria, debbono sussistere le esigenze organizzative atte a permettere che alcune prestazioni lavorative siano svolte in regime di tempo parziale. Ne discende che solo ed esclusivamente il datore di lavoro può - nell'esercizio della discrezionalità che gli compete in tutto ciò che attiene agli aspetti organizzativi — stabilire se effettivamente ci sia bisogno di prestazioni a tempo parziale e se le richieste avanzate in tal senso dai dipendenti rispondano alle esigenze medesime, sì da potere trovare accoglimento. Si tratta, quindi, di un potere discrezionale il cui esercizio non è sindacabile dal dipendente.
Una volta però che il datore di lavoro abbia ritenuto sussistente l'esigenza nonché l’utilità di prestazioni a tempo parziale, nonché l'utilità di prestazioni lavorative così rese, la decisione di concedere o negare la trasformazione dei rapporto a part-time non è più discrezionale, bensì vincolata ai criteri prestabiliti in sede di accordo collettivo, ai quali il datore di lavoro deve conformarsi nella regolamentazione dei singoli rapporti, facendo anche applicazione dei principi di buona fede e correttezza che debbono ispirare l'esecuzione del contratto. Con la conseguenza che l'inosservanza di detti criteri legittima il dipendente che si ritenga leso dalla condotta datoriale ad agire per il risarcimento del danno, anche in forma .specifica, per ottenere la trasformazione del rapporto in part-time, oltre ad eventuali altre voci di danno collegate allo stesso illecito.
In base a questa ricostruzione, la posizione datoriale rispetto alla concessione del part-time richiesto da! dipendente corrisponde ad un potere discrezionale nello stabile se ricorrano le esigenze organizzative, e vincolato nel modo di concedere la trasformazione in predetto regime.
Ne deriva che, mentre va escluso il diritto del dipendente di sindacare le decisioni datoriali in ordine alla sussistenza o meno delle esigenze organizzative e produttive compatibili con prestazioni rese in regime di tempo parziale, si può invece ravvisare in capo al dipendente una posizione di diritto soggettivo suscettibile di tutela risarcitoria relativamente alle modalità di esercizio di quel potere, e, quindi, relativamente al potere de! datore di scegliere a chi accordare il part-time tra quei dipendenti che ne abbiano fatto richiesta.
Nella specie, conclude la Corte, il datore di lavoro, nel vagliare la domanda di part-time avanzata dal ricorrente, ha fatto legittima applicazione dei criteri indicati in sede di contrattazione collettiva circa la presenza di esigenze armonizzabili con l'offerta di prestazione a tempo parziale. Per cui appare legittimo il rigetto della domanda di part- time con la motivazione dell'insussistenza delle condizioni per l’accoglimento della richiesta, con riguardo ad esigenze organizzative.

Anna Nardone

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 13 del 24 giugno – 7 luglio 2011 

 

COME FUNZIONA L’EQUO INDENNIZZO
(Inpdap competente per il trattamento pensionistico di privilegio)

Per le richieste di riconoscimento di infermità derivanti da causa di servizio le norme di riferimento sono ora contenute nel regolamento 461 del 2001 (che ha sostituito il vecchio regolamento 349 del 1994), nell’informativa dell’INPDAP 19 del 2003 e nella circolare del MIUR 45 del 2003.
Quanto alle competenze ad emettere atti in materia, spetta agli Uffici scolastici regionale (ovvero, su delega, agli uffici provinciali) adottare nei confronti di tutto il personale scolastico (dirigente, docente, educativo ed A.T.A.) gli atti concernenti il riconoscimento delle infermità dipendenti da causa di servizio e la concessione dell’equo indennizzo. Gli atti relativi ai trattamenti pensionistici di privilegio sono stati invece affidati alla competenza dell’INPDAP, a cui devono essere inviate le relative istanze.
L’attività preparatoria relativa al procedimento di riconoscimento dell’infermità per causa di servizio è di competenza dell’istituzione scolastica. Le istanze di riconoscimento della dipendenza di infermità da causa di servizio e concessione di equo indennizzo, avanzate da parte del personale scolastico o dagli eredi in caso di morte, debbono essere presentate alla Scuola di titolarità, unitamente a tutta la documentazione di supporto. Tali istanze debbono essere presentate entro sei mesi dalla data in cui si è verificato l’evento dannoso o da quella in cui si ha avuto conoscenza della infermità o della lesione. Se questo termine non viene rispettato, la dipendenza dell’infermità da causa di servizio può ancora essere formalmente riconosciuta, ma non produce i benefici di legge previsti per l’equo indennizzo. Per quanto riguarda l’aggravamento, l’impiegato che abbia già goduto di un equo indennizzo, nel termine di cinque anni può ottenere un’indennità maggiore se la sua menomazione abbia subito un constatato peggioramento.
Tutte le domande relative al riconoscimento di causa di servizio debbono essere successivamente trasmesse agli uffici scolastici territoriali, complete dei dati e della documentazione necessaria, ivi compresa una relazione redatta dal Dirigente Scolastico, nella quale informi sulle circostanze che hanno determinato l’evento lesivo ed esprima esplicitamente il proprio motivato parere, favorevole o sfavorevole, in ordine alla dipendenza o meno da fatti di servizio della infermità contratta dal dipendente.
Qualora l’infermità denunciata dovesse risultare dipendente da infortunio in itinere, ossia avvenuta durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di abitazione, l’interessato dovrà allegare anche il verbale redatto dagli Organi di Polizia, se intervenuti, sulla dinamica dello stesso; eventuali prove testimoniali; dovrà precisare se il tratto di strada in cui si è verificato l’infortunio rientra nel percorso abitazione-ufficio; se la data e l’ora dell’infortunio sono coerenti con il servizio che l’interessato si apprestava a svolgere o aveva svolto.
Il citato DPR 461 del 2001 ha attribuito alle nuove Commissioni Mediche la competenza sulla formulazione della diagnosi dell'infermità o lesione, comprensiva del giudizio sulla idoneità o meno al servizio, ma non in merito al nesso causale tra il servizio e l'evento dannoso, nesso sulla cui sussistenza è, invece, chiamato a pronunciarsi in forma esclusiva il Comitato di verifica per le cause di servizio, con carattere di definitività. Quanto alla concessione dell'equo indennizzo, se richiesta unitamente al riconoscimento di infermità o, in ogni caso, prima della formulazione del parere del Comitato di verifica per le cause di servizio, può essere attribuito, con un unico provvedimento formale, contestualmente al riconoscimento della dipendenza mentre, ove richiesto successivamente, l'attribuzione è subordinata alla verifica dei termini procedurali (non oltre sei mesi dalla data di notifica del provvedimento formale di riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio).

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 7 dell’ 1 - 14 aprile 2011

 

 TUTELATI ANCHE I LAVORATORI PRECARI
(Garantite le prerogative previste per maternità e paternità)

Il personale della scuola, anche precario, gode delle prerogative di tutela della maternità e della paternità previste per tutti i lavoratori dalla legge (d.lgs. 151/2001).
In particolare, durante la gravidanza, le lavoratrici hanno diritto a permessi retribuiti per l'effettuazione di esami e visite prenatali. Hanno poi diritto al congedo di maternità, comprensivo di un periodo di astensione obbligatoria della durata di due mesi precedenti la data del parto, e di tre mesi successivi; ovvero di un mese precedente la data del parto, e di quattro mesi successivi: per l’intero periodo di astensione obbligatoria, alla lavoratrice madre spetta l'intera retribuzione fissa mensile, e le quote di salario accessorio fisse e ricorrenti. L’interruzione della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione è considerata come parto, pertanto, alla lavoratrice spetta un congedo di tre mesi; l’interruzione antecedente al 180° giorno dall’inizio della gestazione è considerata a tutti gli effetti come malattia. In caso di parto gemellare o plurimo i periodi di astensione obbligatoria non si raddoppiano.
Anche le docenti supplenti annuali o temporanee beneficiano delle medesime tutele: nel dettaglio, se al momento del conferimento dell’incarico a termine l’interessata si trova in astensione obbligatoria, quindi impedita ad assumere servizio, ha diritto alla supplenza valida a fini giuridici ed economici; il rapporto di lavoro si perfeziona con la semplice accettazione, senza che sia richiesta l’effettiva assunzione del servizio. In caso di scadenza del termine contrattuale durante il periodo di astensione obbligatoria, alla supplente spetta l’indennità di maternità pari all’80% dello stipendio per tutto il periodo di astensione obbligatoria, dunque anche oltre la scadenza.
Oltre all’astensione obbligatoria, la legge prevede un periodo di astensione facoltativa per congedi parentali pari a complessivi dieci mesi, continuativi o frazionati, ripartibili tra madre e padre, nei primi otto anni di vita del bambino. In questi casi, la retribuzione è intera per i primi trenta giorni, computati complessivamente per entrambi i genitori; per i successivi sei mesi, entro il terzo anno di vita del bambino, spetta un’indennità al 30%; per gli ulteriori periodi fino alla massima durata prevista spetta l’indennità al 30% solo se il reddito individuale dell’interessato è inferiore a 2,5 volte la pensione minima.
Durante il primo anno di vita del bambino, la lavoratrice ha poi diritto a riposi giornalieri – con retribuzione intera - pari a due periodi di un’ora, ovvero un solo periodo se l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore. Per il personale docente, in particolare, è previsto il diritto a sei ore settimanali nel caso di servizio su sei giorni; a cinque ore in caso di servizio su cinque giorni, con giorno libero settimanale. Il diritto al riposo giornaliero spetta anche al padre lavoratore in caso di figli a lui affidati esclusivamente, o in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga, o quando la madre non sia lavoratrice dipendente, o infine in caso di morte o grave infermità della madre. I periodi di riposo sono raddoppiati in caso di parto plurimo e le ore aggiuntive possono essere fruite anche dal padre.
I genitori hanno diritto di astenersi dal lavoro in tutti i periodi di malattia del figlio di età non superiore a tre anni: di queste assenze, trenta giorni all’anno sono retribuiti al 100%; i rimanenti non sono retribuiti. Per le malattie del figlio dopo il compimento del terzo anno e fino all’ottavo, i genitori hanno diritto di astenersi dal lavoro nel limite di cinque giorni all'anno, non retribuiti.
Infine, si ricorda che la legge prevede che alla lavoratrice madre siano riconosciuti ai fini pensionistici i periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria (cinque mesi) per maternità anche qualora la nascita del figlio o dei figli sia avvenuta in un periodo in cui la medesima era disoccupata.

Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 11 del 27 maggio – 9 giugno 2011

 

CIFRE DIFFICILI DA RECUPERARE

 (Molti meccanismi rendono arduo il rientro dei soldi allo Stato)

 In giurisprudenza si è consolidato il principio – espressa con riferimento ad indebiti anche non pensionistici - che la ripetizione delle somme erroneamente corrisposte dall'amministrazione al pubblico impiegato debba essere soggetta, per il principio dell'affidamento e sul presupposto dello stato di buona fede del dipendente, a ponderazione di interessi, in relazione al  tempo trascorso, all'entità della prestazione pecuniaria da ripetere, alla presumibile destinazione della somma al soddisfacimento dei bisogni essenziali della vita (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2004, n. 8233; T.A.R. Piemonte Torino Sez. II, 5.2.2010, n. 635; T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, 1.8.2006, n. 2255; TAR Toscana Firenze Sez. I, 30.5.2006, n. 2549;  TAR Lazio, Roma, Sez. III, n. 14819/2005; TAR Venezia, 26.2.2003 n. 1569).

Secondo tale opinione, il recupero del credito erariale non è una conseguenza necessaria e automatica dell'annullamento e/o riforma dell'atto attributivo di un trattamento economico, ma è un effetto autonomo. La discrezionalità del recupero va ricollegata al fatto che la ripetizione dell'indebito dell'amministrazione è sì oggetto di un'obbligazione comune del dipendente, ma comunque è connessa ad un rapporto in essere con un'amministrazione, e come tale non può sottrarsi al generale principio della tutela dell'affidamento che disciplina l'azione amministrativa. Il principio di tutela dell’affidamento è ricollegabile all'obbligo di correttezza di cui è espressione la ponderazione degli interessi, ed ha avuto – nell’elaborazione giurisprudenziale - numerose applicazioni di specie. Il medesimo principio trova specifiche ragioni di applicazione nell’ipotesi di ripetizione dell'indebito dell'amministrazione, in quanto: il percipiente in buona fede ha regolato il suo comportamento su quello dell'amministrazione, presunto legittimo; lo stato soggettivo di buona fede del percipiente nell'indebito oggettivo è rilevante a determinati effetti (frutti, interessi) anche secondo il diritto comune (art. 2033 cod. civ.); l'obbligazione di restituire somme di denaro indebitamente percepite, ma che presumibilmente sono state destinate al consumo, incide su esigenze primarie dell'esistenza, che il principio della retribuzione sufficiente di cui all'art. 36 Cost. prende in specifica considerazione e tutela.

E’ perciò illegittimo il provvedimento di ripetizione dell’indebito assunto dall’amministrazione nonostante lo stato di buona fede del dipendente, l'entità della somma da ripetere, e la evidente incisione che la ripetizione arrecherebbe al soddisfacimento dei bisogni essenziali della vita.

Non solo. Della ponderazione degli interessi – secondo i principi di correttezza, a tutela dell’affidamento, della buona fede e delle esigenze primarie di vita del pensionato - l’amministrazione deve rendere puntuale conto nella motivazione del provvedimento di recupero, pena l’illegittimità del provvedimento stesso.

Nel concreto, lo stato di buona fede e l’affidamento è desumibile in primo luogo dal protrarsi nel tempo dell’errore dell’amministrazione, che peraltro incide in modo determinante sull’importo preteso; rileva poi, appunto, l’entità della somma da ripetere e l’evidente incidenza che il recupero, anche frazionato, arreca al soddisfacimento dei bisogni essenziali della vita del dipendente, tantopiù grave, ove si consideri che gli importi sono generalmente destinati ai consumi primari. Pesa infine il difetto di motivazione, allorchè il provvedimento di recupero impugnato omette ogni riferimento alle esigenze sin qui illustrate, e/o ad eventuali altre di segno opposto meritevoli di favore.

Un equo apprezzamento degli interessi di specie, alla luce dei principi di tutela della buona fede, della correttezza e dell’affidamento; dei modi e dei tempi impiegati all’amministrazione per giungere all’accertamento del preteso indebito; dell’entità dell’importo da ripetere; e infine del suo impiego per la soddisfazione di esigenze primarie di vita, porti spesso i giudici – s’è detto - a concludere per l’illegittimità del recupero.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 5 del 4 -18 marzo 2011

 

DUBBI SUL TAGLIO IN BUSTA PAGA

(La norma del decreto Brunetta è al vaglio della Consulta)


In tema di assenze per malattia, è al vaglio della Corte Costituzionale la legittimità della norma del decreto Brunetta che ha introdotto decurtazioni stipendiali in caso di malattia per i lavoratori della scuola e tutti i pubblici dipendenti.

La questione - sollevata dal Tribunale del lavoro di Livorno – riguarda la conformità alla Costituzione dell’art. 71 del dl 112/2008 convertito in l 133/2008 (cosiddetto Decreto Brunetta) in relazione agli articoli  3, 32, 36 e 38.  

L’articolo prevede che: “Per i periodi di assenza per malattia, di qualunque durata, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni  nei primi 10 giorni di assenza è corrisposto il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio”.

Secondo il giudice remittente, la norma si pone in palese contrasto con l’art. 3 della Costituzione il quale tutela la persona e la sua dignità, e stabilisce il principio generale di eguaglianza dei cittadini di fronte all’ordinamento. L’art. 71 del citato decreto, applicabile ai soli lavoratori del settore pubblico, determina un’illegittima disparità di trattamento nel rapporto di lavoro dei lavoratori del settore pubblico rispetto a quelli del settore privato, dove non è prevista tale decurtazione dello stipendio in caso di malattia. La parità di condizioni è prevista dal nostro ordinamento come vincolo inderogabile, se non sulla base di criteri o elementi che evitino di trattare in modo differenziato situazioni omogenee.  Il legislatore, con la norma in parola, finisce per trattare in modo ingiustamente differente le due categorie di lavoratori, discriminando i lavoratori del settore pubblico. 

Inoltre, considerato che lo stipendio del lavoratore legittimamente ammalato viene privato di voci retributive che normalmente spetterebbero in funzione del lavoro svolto, il medesimo stipendio - dati gli stipendi che percepiscono ad oggi i lavoratori del comparto pubblico – diventerebbe tale da non garantire al lavoratore una vita dignitosa. Di fatto la malattia si trasforma in un “lusso” che il lavoratore non potrà più permettersi. Ciò determina un contrasto con l’art. 36 della Costituzione che prevede che sia garantita una retribuzione proporzionata ed in ogni caso sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa.

Il lavoratore del settore pubblico subisce dunque, in virtù dell’applicazione della norma in oggetto, un concreto danno economico in senso retributivo e contributivo. Ciò appare illegittimo anche alla luce del fatto che il lavoratore, e anche la parte sindacale stipulante per lui, quando sottoscrive un contratto di lavoro si vede garantito, oltre al minimo tabellare, anche indennità e voci di compensi che entrando in malattia perde, dato che la norma prevede il pagamento del solo trattamento retributivo minimo fondamentale.   

L’articolo in questione, poi, incidendo pesantemente sulla retribuzione del lavoratore malato, crea di fatto un abbassamento della tutela della salute del lavoratore che, spinto dalle necessità economiche, viene di fatto indotto a lavorare aggravando il proprio stato di malattia, in violazione dell’art. 32 della Costituzione che garantisce la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività: la salute del lavoratore è infatti un aspetto fondamentale per il buon andamento dell’economia della Repubblica, contribuendo un lavoratore in salute alla crescita del paese.

L’assenza di garanzia al lavoratore malato di adeguati mezzi di mantenimento ed assistenza costituisce inoltre violazione dell’art. 38. Il privare un lavoratore in malattia di parte dello stipendio, della retribuzione globale di fatto, integra esattamente quel fare venire meno i mezzi di mantenimento e assistenza al cittadino in quel momento inabile al lavoro.   

Spetta ora alla Corte Costituzionale giudicare sulla fondatezza dei rilievi mossi dal giudice del lavoro, decretando – in caso di accoglimento della questione – l’annullamento della norma del decreto Brunetta.

 

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 18 del 28 ottobre – 10 novembre 2011

 

 

GIUDICI D’ACCORDO SULL’ASSEGNO
(Interpretazione convergente tra i magistrati della Corte dei conti)

Il diritto del pensionato pubblico all’applicazione degli aumenti secondo il coefficiente ISTAT calcolato su una IIS “teorica” intera, invece che su quella effettiva, decurtata in quarantesimi, a decorrere dalla data del raggiungimento dell'età pensionabile, è riconosciuto dalla giurisprudenza prevalente (si vedano da ultimo le recentissime decisioni Corte dei Conti per la Lombardia del 19 aprile 2010, favorevoli a dichiarare il diritto all’applicazione del citato meccanismo perequativo).
A tale proposito, e a titolo esemplificativo, si legga quanto correttamente esplicato in una precedente sentenza della Corte dei Conti Lombardia 393 del 2006: “Ai soli fini del calcolo della quota di incremento della pensione concettualmente riferibile alla perequazione della I.I.S. - e ferma restando la corresponsione in quarantesimi della I.I.S. effettivamente in godimento, alla quale l'aumento “intero” va a sommarsi - deve considerarsi una I.I.S. fittiziamente calcolata nella intera misura. Inoltre, tenuto conto della ratio della norma, che è quella di omogeneizzare gli incrementi per tutti i pensionati di una certa età - si rammenta che per “misura intera” deve intendersi non tanto l'ammontare dell'I.I.S. corrente alla data del pensionamento (I.I.S. storica), bensì l'importo attualizzato al periodo di riferimento della perequazione (comprensivo, cioè, delle variazioni medio tempore intervenute sulla I.I.S. “piena”).
Ugualmente concorde è l’opinione dei giudici delle pensioni sulla circostanza che i successivi criteri introdotti per il calcolo della perequazione automatica non abbiano innovato sul vigente sistema di adeguamento dell'IIS sancito dall'articolo 10 del decreto legge 17 del 1983, specie in ragione della finalità della norma che era quella di riconoscere ai pensionati “anticipati”, una volta compiuta l’età dovuta, un aumento dell’i.i.s. pari a quello spettante agli altri pensionati. L’interpretazioni illustrata, sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria, è altresì idonea a salvaguardare le ragioni di fondo sottese alla stessa riduzione dell'IIS in quarantesimi poiché, in ogni caso, la quantificazione dell'IIS percepita dai titolari di pensione di anzianità rimane comunque inferiore alla misura prevista per i pensionati cessati al raggiungimento del limite d'età, trovando ciò razionale giustificazione nella diversità sostanziale tra le posizioni soggettive sottostanti.
Ancora più chiara si propone la decisione 27/2006 della Corte dei Conti Piemonte: “ai soli fini del calcolo della quota di incremento della pensione concettualmente riferibile alla perequazione della i.i.s., e ferma restando la corresponsione in quarantesimi della i.i.s. effettivamente in godimento (alla quale l’aumento “intero” va a sommarsi), deve riconoscersi al pensionato (verificandosi le condizioni di cui al quarto comma, citato) una perequazione periodica calcolata sulla pensione comprensiva non già della i.i.s. “effettiva” in pagamento, bensì di una i.i.s. fittiziamente riconosciutagli nella intera misura. Inoltre, tenuto conto della ratio della norma, come sopra ricostruita, per “misura intera” deve intendersi non tanto quella storica, riferita alla i.i.s. corrente alla data del pensionamento, quanto quella attualizzata al periodo oggetto di perequazione (cioè comprensiva delle variazioni nel frattempo intervenute sulla i.i.s. “piena”). L’effetto pratico di questa interpretazione consiste nel riconoscere al pensionato, compiuta l’età prevista, un incremento periodico sulla i.i.s. (appunto: la sola “variazione”) pari a quello che gli sarebbe corrisposto se l’i.i.s. gli fosse stata concessa ab origine nella misura intera; così operando, l’incremento della i.i.s. è reso pari, tempo per tempo, a quello corrisposto a chi era andato in quiescenza con il massimo dell’anzianità; lo stesso beneficio è in tal modo conservato nel “nuovo” sistema della perequazione automatica esattamente come in quello “vecchio” del valore unitario del punto di contingenza, ferma restando l’i.i.s. “effettiva” in pagamento (che resta ragguagliata ai “quarantesimi”)”.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il Sole 24 Ore Scuola” n. 10 del 13 – 26 maggio 2010
 

INDENNITA’ INTEGRATIVA ANCHE AI PENSIONATI

Ai dipendenti pubblici in pensione, dopo il raggiungimento dell’età pensionabile, vanno riconosciuti gli incrementi dell’indennità integrativa speciale in misura intera. Così decide la Corte dei Conti, Sezione I d’Appello, con recente decisione (22.2.2009 n. 88/2009/A), confermando un orientamento già espresso in precedenza, ai sensi del quale “la regola secondo la quale il pensionato ha diritto alla corresponsione in misura intera degli incrementi dell'indennità integrativa speciale sul trattamento di quiescenza a decorrere dal raggiungimento dell'età di pensionamento, sancita dal comma 4 dell'art. 10 D.L. n. 17 del 1983, non è incompatibile con il nuovo sistema di perequazione introdotto dall'art. 21 L. n. 730 del 1983” (cfr. C. Conti Sez. I App., 22.11.2006, n. 238). Peraltro, si dica per inciso che detta opinione coesiste con quella di segno opposto manifestata dalla medesima Corte, diversa sezione, secondo cui “con l'entrata in vigore del sistema di perequazione automatica, introdotto dall'art. 21 L. 27 dicembre 1983, n. 730, deve ritenersi venuto meno il diritto agli incrementi in misura intera dell'indennità integrativa speciale ex art. 10, comma 4, D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito in L. 25 marzo 1983, n. 79” (cfr. C. Conti Sez. III App., 19.9.2006, n. 408).
La vicenda
Il ricorrente, dipendente pubblico in pensione dal 1983, chiedeva il riconoscimento del diritto all’attribuzione, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, degli incrementi dell’indennità integrativa speciale in misura intera e non commisurati agli anni di servizio, richiamando la giurisprudenza favorevole.
La Corte dei Conti, sez. I d’Appello, accoglie la domanda del ricorrente e conferma “il diritto […] all’attribuzione, dal compimento del 65^ anno di età, degli incrementi dell’i.i.s. in misura intera non commisurati agli anni di servizio ad eccezione dei ratei anteriori di oltre un quinquennio alla presentazione della domanda giudiziale o extragiudiziale”.
Motivi della decisione
La questione sottoposta all'esame della Corte dei Conti, Sezione I d’Appello, concerne la misura della indennità integrativa speciale spettante al ricorrente, in pensione dal 1983, al momento del compimento dell'età` pensionabile prevista dall'ordinamento di appartenenza.
Osserva al riguardo l’organo giudicante, in aderenza – come ricordato - con altre pronunce rese su analoga questione dalla stessa sezione, che criteri ermeneutici logici e letterali portano a ritenere legittima la tesi che - in applicazione dell'art. 10, DL 29.1.1983, n. 17 - la perequazione periodica debba essere calcolata tenendo presente la pensione comprensiva non già dell’i.i.s. “effettiva” in pagamento, bensì una i.i.s. “di riferimento fittiziamente riconosciuta in misura intera”.
La materia è stata disciplinata dal decreto legge n. 17/1983 (convertito in legge n. 79/1983) normativa che ha inteso, tra l’altro, contenere la spesa pubblica in materia previdenziale. In particolare l’art. 10 ha introdotto il principio per cui, al pari della base pensionabile, anche l’indennità integrativa speciale viene rapportata al numero di anni di servizio utili a pensione (art. 10, primo comma: “Per il personale avente diritto all'indennità integrativa speciale […] la misura dell'indennità stessa da corrispondere in aggiunta alla pensione o assegno è determinata in ragione di un quarantesimo per ogni anno di servizio, utile ai fini del trattamento di quiescenza, dell'importo dell'indennità stessa spettante al personale collocato in pensione con la massima anzianità di servizio”). La medesima disposizione al comma 4 ha previsto, peraltro, un temperamento del rigore della nuova disciplina introdotta con il citato primo comma, disponendo che “successivamente alla data indicata nel primo comma, le variazioni dell'indennità integrativa speciale saranno determinate, per la generalità del personale in quiescenza e con la periodicità al momento in vigore, in ragione dei quarantesimi di cui al precedente primo comma. Il ragguaglio a quarantesimi di cui al comma precedente cessa dalla data del raggiungimento dell'età di pensionamento da parte dell'intestatario della pensione, ovvero dalla data di decorrenza della pensione di riversibilità in favore dei superstiti.”.
Tale esplicito temperamento non è venuto meno con l’introduzione del nuovo sistema di perequazione delle pensioni di cui all’art. 21, l. n. 730/1983 non più basato sul valore unitario del punto di contingenza, bensì operante in cifra percentuale sull’ammontare del trattamento in godimento. Al riguardo, infatti, il menzionato art. 21 così dispone: “resta ferma la disciplina prevista per l’attribuzione, all’atto della cessazione dal servizio, dell’i.i.s. ivi compresa la normativa stabilita dall’art. 10 della legge n. 79/1983”.
In sostanza, la Corte dei Conti, sezione I d’Appello, ritiene doversi aver riguardo all'effetto concreto delle nuove norme: il comma 4 dell’art.10, d.l. n. 17/1983 è volto a garantire ai pensionati cessati anticipatamente, ai quali spettano in “quarantesimi” sia l’i.i.s. e sia i relativi incrementi, di ottenere almeno gli incrementi “in misura intera” al raggiungimento dell'età di pensionamento, al pari di quelli spettanti agli altri pensionati. Se l'effetto – e, dunque, la finalità - della norma, è quello di attribuire lo stesso incremento periodico all'una e all'altra categoria di pensionati, allo stesso risultato deve pervenirsi anche nel sistema di perequazione successivo all'aprile del 1984; si rende necessario, dunque, applicare il coefficiente Istat di ri¬valutazione su una i.i.s. teorica computata in misura “intera” anziché su quella, effettivamente corrisposta al pensionato, calcolata in quota. La qualcosa esclude, ovviamente, che al raggiungimento dell’età di pensionamento debba essere riconosciuto l’intero importo dell’indennità integrativa speciale. Argomentando diversamente, infatti, verrebbe stravolto il senso dell’innovazione legislativa finalizzata, comunque, a limitare il ricorso al pensionamento anticipato, con particolare riguardo alle ipotesi di anzianità contributiva particolarmente ridotta.

Anna Nardone
Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 19 del 6-19 nov. 2009

 

L’INDENNITA’ RESTA UN REBUS

A seguito del conglobamento dell’indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare, è controverso se la maggiorazione della base pensionabile ai fini della determinazione del trattamento di quiescenza debba applicarsi al trattamento stipendiale comprensivo dell’IIS ovvero al solo stipendio, esclusa detta indennità.
In particolare, l’Inpdap nega da sempre che la maggiorazione in parola debba estendersi all’IIS, in quanto – secondo le norme in materia – ai fini della determinazione della misura del trattamento di quiescenza, la base pensionabile soggetta all’aumento del 18% è data dallo stipendio e dagli assegni o indennità tassativamente indicati dalle medesime norme, escluso ogni altro assegno o indennità ancorchè qualificati come pensionabili; ciò con ogni effetto sui trattamenti di quiescenza liquidati agli interessati.
Lacuna giurisprudenza conforta la tesi opposta, con conseguente riconoscimento del diritto del personale dirigente, docente e non docente della scuola, cessato dal servizio successivamente al conglobamento dell’IIS nello stipendio tabellare, alla riliquidazione dei rispettivi trattamenti pensionistici previa maggiorazione del 18% a valere su tutto l’importo dello stipendio tabellare – comprensivo della ex voce retributiva IIS - , e corresponsione delle differenze spettanti sui singoli ratei di pensione, comprensivi di interessi legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo.
Per maggior chiarezza e completezza, si premette che ai sensi art. 43, DPR n. 1092 del 1973, come sostituito dall’articolo 15, l. n. 177 del 1976: “Ai fini della determinazione del trattamento di quiescenza dei dipendenti civili, la base pensionabile, costituita dall’ultimo stipendio o dall’ultima paga o retribuzione e dagli assegni o indennità pensionabili sotto indicati, integralmente percepiti, è aumentata del 18%. (…..). Agli stessi fini, nessun altro assegno o indennità, anche se pensionabile possono essere considerati se la relativa disposizione di legge non ne preveda espressamente la valutazione nella base pensionabile.”.
Al riguardo, la giurisprudenza delle pensioni ha sempre distinto, in punto di applicazione della maggiorazione di che trattasi, tra “trattamento stipendiale”, come tale assoggettabile all’incremento del 18%, e le “ulteriori voci retributive” non computabili a fini di maggiorazione se non nei casi espressamente preveduti dalla legge (ancorché concernenti voci pensionabili, pertanto valutabili ai fini pensionistici).
Ciò premesso, con riferimento alla specifica vicenda, si osserva che la contrattazione collettiva ha disposto che - a decorrere dal 1.1.2002 per i dirigenti scolastici; e dal 2.2.2003 per il personale docente e non docente - l’intero importo dell’indennità integrativa speciale cessa di essere corrisposto come singola voce retributiva e viene conglobato nello stipendio tabellare. A decorrere dalla predetta data, l’indennità integrativa speciale cessa di esistere come voce retributiva autonoma, per divenire giuridicamente ed economicamente “stipendio tabellare”. Da ciò, buona parte della giurisprudenza deduce che ragionevolmente alla ex voce IIS deve applicarsi la maggiorazione del 18%, essendo l’applicazione della normativa pensionistica richiamata al nuovo stipendio tabellare una mera conseguenza, in quanto il conglobamento è espressamente avvenuto nella voce “stipendio”, senza eccezione o riserva (C. Conti, Sez. Liguria, 3.10.2007, n. 771; C. Conti, sez. Marche, 3.11.2008 n. 380; C. Conti, sez. centrale controllo, 26.2.2004 n. 2/2004/P; C.Conti, sez. centrale controllo, n. 6/2005/P). A sostegno di questa tesi si osserva altresì che la trasformazione dell’IIS in stipendio trova un precedente negli accordi contrattuali del 1987 – applicabili anche al personale della scuola - secondo cui a decorrere dal 30 giugno 1988 una parte dell’IIS veniva espressamente conglobata nello stipendio, senza che allora si eccepisse alcunché in merito alla valutazione di quella quota di indennità ai fini della maggiorazione del 18% previsto dall’articolo 15, l. n. 177 del 1976. Ugualmente si rileva l’abnormità di perpetrare nel tempo il riferimento alla natura e provenienza degli emolumenti conglobati nello stipendio tabellare, e di costringere l’interprete a conservare la memoria storica della provenienza di ogni singolo emolumento conglobato nello stipendio a far data dal 1976 – data di entrata in vigore della legge n. 177/1976 -: ciò che conta ad ogni fine giuridico ed economico è la voce d’approdo dell’emolumento conglobato. Per l’effetto, con riferimento alla ex voce IIS deve escludersi ogni rilevanza delle pregresse disposizioni fondate sul presupposto dell’autonomia della voce retributiva, ormai conglobata, ed ammettersi, al contrario, l’applicazione della maggiorazione del 18% sull’intero stipendio tabellare annuo lordo percepito in attività di servizio dai ricorrenti, comprensivo di detta ex voce “indennità integrativa speciale”.
La questione è ancora aperta e molto dibattuta, anche in considerazione dei numerosi contenziosi pendenti.


Domenico Barboni
Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 21 del 4-17 dicembre 2009

 

 LE REGOLE NEI RAPPORTI PART TIME
Diverse sono le eccezioni al dovere del pubblico impiegato di esclusività nella prestazione, che comporta l'obbligo di dedicare interamente all'ufficio cui è addetto la propria attività lavorativa, e il correlato divieto di esercizio di altre attività ritenute incompatibili con la funzione impiegatizia. A questo proposito, particolare considerazione merita la posizione dei dipendenti pubblici con un rapporto a tempo parziale. Secondo le vigenti norme, la prestazione lavorativa part-time nel pubblico impiego può svolgersi con le seguenti modalità: ridotta in tutti i giorni lavorativi (tempo parziale orizzontale); su alcuni giorni della settimana, del mese, o di determinati periodi dell'anno (tempo parziale verticale); combinazione delle due modalità su indicate (tempo parziale misto). Il personale con rapporto a tempo parziale è escluso solo dai benefici che comunque comportino riduzioni dell'orario di lavoro. Nell'applicazione di altri istituti normativi, tenendo conto della ridotta durata della prestazione e della peculiarità del suo svolgimento, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di legge e contrattuali dettate per il rapporto a tempo pieno. Il trattamento economico è proporzionale alla prestazione lavorativa. Quanto alle ferie, i dipendenti a tempo parziale orizzontale hanno diritto ad un numero di giorni di ferie pari a quello dei lavoratori a tempo pieno; i lavoratori a tempo parziale verticale hanno diritto ad un numero di giorni proporzionato alle giornate di lavoro prestate nell'anno.
Orbene, ai dipendenti pubblici in regime di tempo parziale è consentito per legge di svolgere qualsiasi tipo di attività, sia come dipendente, sia come lavoratore autonomo. Più precisamente, per poter svolgere un’altra attività non ammessa per il personale a tempo pieno, il rapporto a tempo parziale non può avere orario superiore al 50% di quello previsto per l'analogo personale a tempo pieno. Il dipendente è poi tenuto a comunicare, entro quindici giorni, all'Amministrazione nella quale presta servizio, il prossimo inizio o la variazione dell’attività lavorativa aggiuntiva. Infine, tale attività accessoria non può, in alcun caso, essere costituita con altra amministrazione pubblica, e deve comportare prestazioni lavorative compatibili con gli obblighi di servizio, che non si pongano in conflitto di interessi con le funzioni istituzionali svolte nell'ambito dell’amministrazione di appartenenza.
Il principio della compatibilità di prestazioni aggiuntive con un rapporto di impiego part-time - alle condizioni su richiamate - vale anche per il personale docente e non docente della scuola. Si tenga però presente che la costituzione di rapporti di lavoro a tempo parziale con il personale docente deve tener conto delle peculiari esigenze di ciascun grado di istruzione, anche in relazione ai singoli insegnamenti, ed assicurare l'unicità del docente, per ciascun insegnamento e in ciascuna classe. Il personale della scuola con rapporto part-time che intenda assumere un ulteriore incarico è tenuto a darne comunicazione al dirigente scolastico, il quale può opporsi qualora l’esercizio dell’attività aggiuntiva rappresenti un pregiudizio all'assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e sia incompatibile con l'orario di insegnamento e di servizio, anche a tempo parziale.
Le norme vigenti, infine, prevedono delle sanzioni a carico del personale che contravvenga ai divieti in tema di incompatibilità, applicabili sia ai dipendenti a tempo pieno, sia a quelli a tempo parziale. In particolare, per il personale della scuola è previsto che in caso contravvenzione ai divieti il medesimo venga diffidato dal dirigente scolastico ovvero dal dirigente dell’ufficio scolastico provinciale a cessare dalla situazione di incompatibilità. L'ottemperanza alla diffida non preclude l'azione disciplinare. Decorsi quindici giorni dalla diffida senza che l'incompatibilità sia cessata, viene disposta la decadenza del dipendente, sentito il Consiglio nazionale della pubblica istruzione.

 Domenico Barboni

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 10, 19 maggio - 1 giugno 2006

 

BENEFICI ECONOMICI DEI PRECARI
Fino alla riforma di cui alla L. 18.7.2003 n. 186, la posizione giuridica degli insegnanti di religione cattolica nella scuole era caratterizzata da un’assenza di stabilità, nel senso che la loro nomina aveva efficacia annuale, e i medesimi erano esclusi dall’organico. Per effetto di tale situazione di precarietà giuridica, le disposizioni vigenti riconoscevano ai predetti docenti alcuni benefici economici, e, in particolare, l'attribuzione del beneficio della progressione economica e di carriera, al pari dei docenti laureati del ruolo della scuola secondaria superiore.
Orbene, il combinato disposto tra le norme di riforma e quelle precedenti, determina un certa disparità di trattamento tra i docenti precari di religione e quelli di altre discipline.
Invero, a seguito dell'entrata a regime delle norme che consentono l'immissione in ruolo dei docenti di religione, è rimasta inalterata la disciplina che prevede il diritto alla ricostruzione di carriera per i docenti che maturano almeno quattro anni di servizio. In altre parole, il docente precario di religione che lavori per quattro anni, anche su spezzoni, matura il diritto alla ricostruzione di carriera come i docenti di ruolo, sempre che al quinto anno di servizio sia in grado di vantare la titolarità di un incarico ad orario pieno. Questo trattamento di favore si estende anche ai docenti precari che, al quinto anno, vengano assunti su spezzoni da dodici a diciassette ore, per ragioni strutturali. Dove per ragioni strutturali che possono concretizzare la costituzione di posti per un numero di ore settimanali di insegnamento inferiore a cattedra, sono quelle collegate con il numero delle classi e dei corsi funzionanti nelle singole istituzioni scolastiche, distinte, rispettivamente, in scuola materna ed elementare da un lato e scuola secondaria dall'altro. Per contro, il docente precario che insegna sulle classi di concorso previste dall'ordinamento scolastico statale, anche se lavora tutti gli anni, non matura mai il diritto a passare alla classe stipendiale successiva.
La discriminazione è vieppiù aggravata dal fatto che sembrano venute meno le ragioni che la giustificavano in passato: s’è detto, che il diritto alla ricostruzione di carriera, per gli insegnanti di religione cattolica, era stato previsto perché il precedente ordinamento non consentiva l'assunzione con contratto a tempo indeterminato; donde l’esigenza di compensare almeno in parte tale limitazione giuridica con l'introduzione di meccanismi di adeguamento retributivo legati all'anzianità di servizio, in analogia con il personale di ruolo delle altre discipline.
Per i docenti precari delle altre discipline, invece, si ritenne di non introdurre questo vantaggio: la ragione è evidente, dal momento che, comunque, all'atto della stabilizzazione del rapporto di lavoro con l’immissione in ruolo, il docente matura il diritto a percepire tutti gli emolumenti cui avrebbe avuto titolo se fosse stato immesso in ruolo con decorrenza dal primo giorno in cui è stato assunto come supplente. Tuttavia, se tale ragione era apprezzabile in passato – quando la condizione di precariato era sempre provvisoria, perché le immissioni in ruolo venivano disposte con regolarità, e, a motivo della forte disponibilità di posti, la maggior parte dei docenti precari veniva assunto in ruolo agevolmente – negli anni si è avuta un'inversione di tendenza, di tal ché può capitare, ed anche frequentemente, che docenti precari cessino dal servizio senza essere mai stati assunti a tempo indeterminato. Al descritto cambiamento di tendenza, non è però seguito una modifica della richiamata disciplina della ricostruzione di carriera. Perciò, a differenza del docente supplente di religione, il docente precario di altre discipline che non viene immesso ruolo, continua ad essere retribuito con il minimo dello stipendio fino alle soglie della pensione. È verosimile che la presente sarà oggetto delle trattative per il prossimo rinnovo contrattuale.

Domenico Barboni

Pubblicato su “ Il Sole 24 Ore Scuola” n. 3, 10 - 23 febbraio 2006

 

IL GINEPRAIO PENSIONISTICO
Nel volgere di pochi anni si è assistito ad una vera e propria rivoluzione del regime pensionistico dei pubblici dipendenti: sono ragionevolmente recenti i tempi in cui si poteva conseguire il diritto a pensione a prescindere dall’età anagrafica, con una minima anzianità contributiva. Sistema pensionistico tuttora al centro di ulteriori attenzioni e preoccupazioni confliggenti. Il sistema pensionistico precedente - troppo gravoso per la collettività – è stato riformato principalmente attraverso due correttivi: un freno ai prepensionamenti, realizzato attraverso l’innalzamento dell’età anagrafica pensionabile, e la penalizzazione del prepensionamento con diritto a pensione (c.d. pensione di anzianità); un sistema di calcolo della pensione cha da un sistema retributivo – nel quale la pensione è calcolata sulla base degli ultimi stipendi - diventa contributivo – nel quale la pensione è calcolata sulla base dei contributi versati durante tutto l’arco della vita lavorativa. Dal punto di vista normativo, la riforma ha comportato la sedimentazione di norme sull’impianto base – costituito dal testo unico di cui al DPR 29.1.1973 n.1092 – il quale fino ad allora aveva offerto all’interprete una disciplina armonica del sistema pensionistico del pubblico impiego; con il susseguirsi degli interventi di modifica, gli operatori sono stati via via obbligati a sforzi interpretativi sempre maggiori. In particolare, si è assistito alla ridistribuzione delle competenze in materia di atti pensionistici, con l’effetto che la gestione - cioè il pagamento - dei trattamenti pensionistici ai dipendenti dello Stato è stata affidata all’Inpdap, mentre i provvedimenti di valutazione dei periodi e servizi, e di attribuzione e determinazione di pensione provvisoria e definitiva, sono rimasti alle amministrazioni di appartenenza. Queste ultime, con l’adozione del provvedimento di pensione definitiva esauriscono gli adempimenti di pertinenza, spettando l’applicazione materiale del trattamento pensionistico all’ente pagatore, che è appunto l’Inpdap. Ragionevolmente, nelle more della definizione del trattamento pensionistico, l’ente erogatore corrisponde al pensionato un trattamento provvisorio determinato in relazione ai servizi risultanti dalla documentazione in possesso, e salvo recupero in sede di liquidazione del trattamento definitivo. Infatti, qualora l’importo della pensione definitiva risultante dal decreto di concessione non sia uguale a quello attribuito in via provvisoria, l’Inpdap provvede alle necessarie variazioni, facendo luogo al conguaglio a credito o a debito e all’eventuale recupero dell’indebito pagato. Da ciò discende che il pensionato che percepisce il trattamento pensionistico provvisorio si trova in una situazione di incertezza, anche per diversi anni, consapevole del fatto che potrebbe vedersi in futuro richiedere le somme indebite ricevute dall’ente, all’atto della liquidazione del trattamento definitivo. Somme che, considerati i tempi della burocrazia, possono raggiungere importi considerevoli, rendendo il recupero nei confronti del dipendente a riposo molto gravoso.
Diverso – almeno formalmente - è il discorso relativo alla posizione del pensionato in presenza del provvedimento di pensione definitiva. Infatti, il carattere definitivo del trattamento impone maggiori garanzie a tutela della certezza delle situazioni di affidamento createsi. E’ perciò previsto che il provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza può essere revocato o modificato dall'ufficio che lo ha emesso solo in poche tassative ipotesi (errore di fatto, omissione, errore di calcolo), e comunque non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso. Ovvero quando siano stati rinvenuti documenti nuovi, o documenti riconosciuti o dichiarati falsi, entro il termine di sessanta giorni dal rinvenimento. In ogni caso, allorché dopo la revoca e la modifica del provvedimento definitivo risultino riscosse rate di pensione non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che la revoca o la modifica siano state disposte in seguito all'accertamento di fatto doloso dell'interessato. Quindi, in linea teorica, dopo l’adozione del provvedimento di pensione definitiva sono esauriti gli adempimenti di liquidazione del trattamento, restando l’applicazione materiale da parte dell’ente pagatore – salva la sola possibilità di modificare o revoca il provvedimento nelle ipotesi tassative indicate, e comunque entro i termini perentori richiamati, e comunque con esclusione del recupero dell’eventuale indebito. La posizione del dipendente in pensione è perciò maggiormente garantita e certa, anche se non mancano le illegittime iniziative di recupero da parte dell’amministrazione, anche oltre i limiti temporali previsti dalla legge, le quali obbligano i pensionati a domandare tutela all’autorità giudiziaria competente, e, in particolare, alla Corte dei Conti quale giudice unico delle pensioni dei dipendenti pubblici.

Domenico Barboni
Pubblicato su “il sole 24 ore scuola” del 14 maggio 2004.

 

INTERESSI LEGALI E RIVALUTAZIONE SUGLI ARRETRATI NELLA PA
Al dipendente pubblico spettano gli interessi sugli arretrati se ha diritto per legge alle somme pagate in ritardo dall’ente dal quale dipende. Lo afferma il Consiglio di Stato, con decisione n. 375 del 4 febbraio 2004 (a conferma di una sentenza del TAR Liguria), che si esprime sul diritto del pubblico dipendente agli interessi legali e alla rivalutazione sulle somme pagate in ritardo dall’amministrazione di appartenenza.
Il Consiglio di Stato riconosce che spettano al dipendente gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sugli importi corrisposti con ritardo dall’amministrazione, in applicazione di un nuovo trattamento economico fissato dalla legge secondo presupposti vincolati - ivi compresa la decorrenza - senza margini di discrezionalità per l’amministrazione; la decorrenza per il calcolo degli oneri accessori è, con evidenza, quella prevista direttamente dalla legge per il beneficio.
Nel caso in esame, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto dal ministero della Giustizia nei confronti di un proprio dipendente, agente di custodia. Il giudice ha ritenuto ingiustificabile il ritardo con il quale il ministero ha provveduto ad attribuire al proprio dipendente il nuovo trattamento economico riconosciutogli dalla legge. La norma, entrata in vigore con largo anticipo rispetto alla decorrenza del beneficio, aveva anche lasciato all’amministrazione un lasso di tempo sufficiente per provvedere.
Quando il diritto patrimoniale del dipendente non deriva direttamente dalla legge o da altro atto normativo, l’obbligo di corrispondere gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sorge per l’amministrazione solo in caso di ritardo nel pagamento. I giudici amministrativi riconoscono che occorre un vero e proprio ritardo della pubblica amministrazione tenuta al pagamento: deve cioè trattarsi di un tempo d’esecuzione delle procedure di pagamenti delle somme dovute eccedente i limiti dei tempi tecnici necessari a provvedere. In altre parole, si risolve che sia il dipendente ad accollare i tempi tecnici ragionevoli, necessari all’amministrazione per concludere il procedimento.
Ancor più tolleranza e generosità si richiede al pubblico impiegato quando gli atti di pagamento costituiscono manifestazione di un’attività discrezionale dell’amministrazione: si giudica che in quei casi – tra i quali, per fare un esempio, rientrano anche i provvedimenti di inquadramento in carriera dei dipendenti – il ritardo non fa sorgere il diritto del pubblico dipendente a interessi legali e rivalutazione monetaria di sorta.

Domenico Barboni

Pubblicato su “Il sole 24 ore” del 12 febbraio 2004.

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