Lavori atipici
COLLABORAZIONI DISCIPLINATE
Le scuole private non sono tenute al rispetto della disciplina dei rapporti individuali di lavoro contenute nella contrattazione collettiva nazionale, che al contrario vincola le scuole pubbliche – statali e paritarie. In particolare, le istituzioni private possono attivare contratti di collaborazione con i docenti, mentre nelle scuole pubbliche il massimo della flessibilità per il personale insegnante è dato dal contratto a tempo determinato. Ciò dava vita, nel recente passato, ad un intrico di rapporti di lavoro subordinato e collaborazioni nel settore dell’istruzione privata, che da tempo reclamava un intervento chiarificatore dello Stato. Con una circolare del ministero del lavoro del 2006 sono stati così fissati alcuni criteri per controllare il corretto ricorso alle collaborazioni nelle aziende, ed anche negli istituti non statali. Tale intervento si era necessario soprattutto dopo che l'entrata in vigore della riforma Biagi del mercato del lavoro aveva definitivamente congedato le co.co.co, sostituite con i contratti a progetto, una forma di lavoro flessibile a cui le imprese possono ricorrere solo per attività non ripetitive e non predeterminate, e che, soprattutto, non coincidono con l'oggetto principale dell'attività d'impresa; che necessitano di un contratto in forma scritta, che definisca le prestazioni e il compenso. Tali paletti, desunti e desumibili dalla riforma Biagi, non erano però bastati, secondo le denunce sindacali, a evitare abusi; e tra i settori sotto accusa c’erano in particolare le scuole private. Secondo le norme ministeriali richiamate, e in ottemperanza alle disposizioni della legge di riforma, presso le scuole non statali i rapporti di collaborazione – nella nuova forma di contratto a progetto – possono essere istaurati solo per discipline non curriculari: al contrario, per le materie del curriculum obbligatorio devono essere creati rapporti di lavoro subordinato, anche per i contratti a tempo determinato. Con la conseguenza che due docenti precari di un istituto privato possono avere una collaborazione o un rapporto subordinato, con differenti regimi retributivi e contributivi, a seconda della materia che insegnano. Le norme citate prevedono anche ispettori che controllino il rispetto dei principi affermati, attraverso attente verifiche sulle tipologie di contratto utilizzate nei confronti degli insegnanti, soprattutto di quelli assunti a tempo determinato.
Diverso è il discorso valido per le scuole paritarie, le quali, unitamente alle scuole statali e a quelle degli enti locali, costituiscono per legge il sistema nazionale di istruzione, e sono perciò sottoposte alla stessa disciplina contrattuale nazionale. Il legislatore, tra i requisiti fondamentali per l’accesso allo status di scuola paritaria, ha infatti inserito il vincolo dell’applicazione dei contratti collettivi, ammettendo che si possa ricorrere a prestazione autonome e volontarie al massimo per il 25% dell’attività di docenza complessiva. E così, anche il contratto a progetto - introdotto nell’ordinamento con la riforma Biagi - sembra trovare una limitata applicazione nelle scuole paritarie: esclusa la sua riconducibilità all’area del lavoro subordinato, la sua utilizzazione potrebbe rimanere circoscritta a quel 25% di attività di insegnamento per la quale si può ricorrere a forme di lavoro autonomo. S’aggiunga che lo stesso Ministero dell’Istruzione, già con circolare del 2003, aveva definito come subordinata la prestazione lavorativa del docente di scuola paritaria, come tale soggetta alla disciplina contrattuale di riferimento, ed alle condizioni economiche e normative dalla stessa previste. A tale ultimo proposito, con riferimento alle scuole private non statali, non è raro che queste ultime identifichino come autonomo o parasubordinato il rapporto con i propri docenti per sottrarsi agli obblighi di legge, quali la retribuzione dei mesi estivi, le mensilità aggiuntive, il trattamento di fine rapporto. La Corte di Cassazione si è più volte occupata del problema, risolvendolo a favore del lavoratore. In particolare, ha affermato che sono determinanti ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato – e quindi del riconoscimento dei conseguenti benefici di legge -, non tanto il nome giuridico fornito dalle parti, quanto il concreto assoggettamento del docente al potere di coordinamento, di controllo e disciplinare del datore di lavoro; il suo inserimento nell’organizzazione aziendale; il sistema retributivo, commisurato alle ore di insegnamento; l’orario di lavoro fissato con disposizione cogente; attività ausiliarie - colloqui con le famiglie, partecipazioni alle riunioni con gli altri docenti e agli scrutini – ugualmente imposte da superiori istanze; l’inserimento funzionale dell’insegnante nell’impresa scolastica, dove il rischio di gestione grava esclusivamente sul titolare, che mette a disposizione i mezzi strumentali necessari per l’espletamento dell’attività didattica, senza alcuna conseguente assunzione di rischio da parte del docente e senza la benché minima partecipazione del lavoratore all’acquisto degli strumenti predetti.
Domenico Barboni
Pubblicato su “Il Sole 24 Ore” n. 10, del 16-29 maggio 2008.
DISPARITA' DI TRATTAMENTO TRA PUBBLICO E PRIVATO
E' legittimo il ricorso a più contratti a termine con il medesimo lavoratore da parte della pubblica amministrazione in deroga alla previsione generale che prevede la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato. Così ha deciso la Corte di Giustizia dell'Unione Europea con sentenza 7.9.2006 n° C-180/04, riconoscendo la conformità all'ordinamento comunitario della disposizione del testo unico del pubblico impiego (art. 36, d.lgs. n. 165/2001) che ammette che le pubbliche amministrazioni utilizzino più contratti a termine con lo stesso lavoratore, così come avviene nei rapporti di lavoro subordinato nell'impresa privata, vietando che in caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni si costituiscano rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ove sia previsto il diritto al risarcimento del danno a favore del lavoratore interessato. - oltre alla responsabilità e alle sanzioni a carico dell'amministrazione, e all'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave.
La vicenda
Un lavoratore assunto da una pubblica amministrazione con un susseguirsi di contratti tutti a tempo determinato viene infine formalmente licenziato. Avverso il licenziamento il medesimo propone ricorso al Tribunale del lavoro, chiedendo il riconoscimento della sussistenza di un rapporto lavorativo a tempo indeterminato con l'amministrazione. Il datore di lavoro pubblico si difende eccependo che il testo unico del pubblico impiego vieta alle pubbliche amministrazioni la costituzione in tali casi di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Il giudice adito decide di sospendere il giudizio e di sottoporre la questione alla Corte di Giustizia UE. La Corte risolve affermando il principio esposto, e cioè che non contrasta con il diritto comunitario la previsione che nel settore pubblico, in caso di abuso derivante dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, sia escluso che questi ultimi vengano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, diversamente da come avviene nel settore privato, ove sia riconosciuto il diritto ad un risarcimento del danno in favore del lavoratore interessato.
I motivi della decisione
La Corte di Giustizia premette che il lavoro a termine è disciplinato dal d.lgs n. 368/2001, che prevede che il rapporto di lavoro a tempo determinato è legittimamente costituito nei casi in cui sussistano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. La violazione delle disposizioni imperative relative al contratto a termine comporta, quale effetto sanzionatorio la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Al contrario, l'art. 36, d.lgs n. 165/2001 pur estendendo al lavoro nel settore pubblico le norme sui contratti a termine, esclude che in caso di patologia del rapporto in questione, questo sia trasformato in rapporto a tempo indeterminato. Si ricorda che già la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità di questa disparità di trattamento, dichiarandone la conformità alla Costituzione sotto il profilo della prevalenza dell'esigenza di salvaguardare il principio del concorso nell'accesso ai pubblici impieghi, la cui deroga è legittima solo ove imposta dall'esigenza di una miglior tutela dell'interesse pubblico, nei limiti della non manifesta irragionevolezza, ed attuata mediante l'individuazione per legge di casi eccezionali (sentenza n. 89/2003). L'organo giudicante ricorda che, nel settore privato, la trasformazione automatica del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato - prevista dal citato d.lgs n. 368/2001 - ha efficacia retroattiva dalla data di stipula del contratto a tempo determinato. Nel settore pubblico, al contrario, la norma richiamata nega l'applicazione del principio della automatica conversione del rapporto a tempo determinato viziato in rapporto a tempo indeterminato, e ciò non tanto per la presenza di elementi di incompatibilità intrinseci all'istituto, bensì in ragione della sussistenza di specifiche norme di settore - e precisamente quelle di rango costituzionale sulla necessità dell'accesso agli impieghi attraverso concorso - che escludono espressamente detta trasformazione. Al riguardo, la Corte Europea di Giustizia in una precedente decisione (sentenza 4.7.2006) aveva già affermato la difformità al diritto comunitario di una legislazione nazionale che vietasse in maniera assoluta, solo nel settore pubblico, la trasformazione di una successione di contratti a tempo determinato - aventi lo scopo di soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli del datore di lavoro - in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il medesimo giudice aveva aggiunto che una normativa nazionale che preveda norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato che escludano la sanzione della conversione del rapporto in violazione di dette norme imperative in uno a tempo indeterminato, deve almeno prevedere misure che presentino garanzie effettive di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente gli abusi ed eliminare le conseguenze della violazione di norme - nella specie anche comunitarie. Tanto premesso, i giudici della Corte concludono che l'attuale normativa nazionale italiana relativa al settore pubblico che - come ricordato - in caso di ricorso illegittimo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, esclude che questi ultimi siano trasformati in contratti di lavoro a tempo indeterminato, diversamente da come avviene nel settore privato, non si pone, in linea di principio, in contrasto con il diritto comunitario, ove detta normativa contenga una misura destinata a prevenire ovvero sanzionare detto utilizzo illegittimo di ripetuti contratti a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione - misura efficacemente rappresentata nel vigente ordinamento italiano dal diritto ad un risarcimento del danno in favore del lavoratore interessato.
Anna Nardone
Pubblicato su "il sole 24 ore scuola" n. 1, 12-25 gennaio 2007
IL LAVORO A TERMINE NEL PUBBLICO IMPIEGO
È di qualche giorno fa la notizia secondo cui il comune di Roma è stato censurato dalla Corte dei Conti perché si era avvalso di collaboratori non qualificati, assunti da sindaco e assessori.
Senza entrare nel merito della vicenda, questo caso può essere utile a far chiarezza sul regime contrattuale del pubblico impiego.
La contrattualizzazione del pubblico impiego, comunemente chiamata privatizzazione, si è realizzata con il D.Lgs. n. 29 del 1993.
Da allora anche nel pubblico si possono applicare i contratti di lavoro atipici sperimentati nel privato.
In realtà il passaggio tra il ‘dire’ e il ‘fare’ è stato più lungo e complesso del previsto ed oggi, tenuto conto anche dei numerosi ritocchi di questi anni, da più parti si lamenta una riforma in parte inattuata ed una disciplina non perfettamente coincidente tra lavoro pubblico e privato.
I principali ostacoli attengono proprio alla diversità tra l’amministrazione preposta alla cura e alla realizzazione degli interessi della comunità, e il privato che, com’è giusto che sia, agisce per la cura dei propri egoistici, quanto legittimi, interessi.
Ciò premesso, non si deve dubitare che i contratti citati possano essere utilizzati dalla pubblica amministrazione ed anzi, il legislatore negli ultimi anni ha ampiamente dimostrato di agevolare contratti che garantiscano una certa ‘flessibilità’.
Pertanto, la pubblica amministrazione può assumere a tempo o richiedere la collaborazione di professionisti la cui competenza ritenga utile per la realizzazione degli interessi della comunità. Come nel privato, ogni tipologia contrattuale può essere utilizzata solo nelle ipotesi specificatamente previste dalla legge. L’assunzione in carenza dei presupposti è illegittima e pertanto nulla.
Alla nullità conseguono degli effetti che sono diversi a seconda che il lavoratore sia alle dipendenze di un privato o di una pubblica amministrazione. Per esempio, un contratto a tempo determinato nullo nel privato fa scattare per il datore di lavoro la sanzione della conversione in tempo indeterminato, nel pubblico impiego invece, la commutazione non si verifica. Al lavoratore, naturalmente, compete il risarcimento del danno per essere stato assunto con una forma che ha comportato la cessazione del rapporto di lavoro.
Uno dei limiti ancora inviolati del pubblico impiego rimane infatti il reclutamento tramite concorso pubblico. Per le assunzioni a tempo indeterminato questa rimane ad oggi l’unica via indicata dal legislatore.
La conseguenza non è di poco conto se si considera che una delle funzioni primarie dei contratti di lavoro atipico è proprio quella di facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro. Nel privato, l’imprenditore che ritenga di voler assumere a tempo indeterminato un giovane di cui ha testato le valenti qualità di collaboratore nel periodo circoscritto può farlo ed è favorito in questa determinazione.
Nella pubblica amministrazioni ciò non può accadere: scaduto il termine del contratto termina anche il rapporto, anzi limitate sono le possibilità di reimpiegare lo stesso soggetto: per l’assunzione a tempo indeterminato l’amministrazione dovrà bandire un concorso pubblico.
Di recente nei contratti collettivi nazionali si è previsto che lo svolgimento di collaborazioni con l’amministrazione costituisce titolo valutabile in sede di concorso, ma le differenze col lavoratore privato rimangono evidenti.
Non si immagini però che la scelta del legislatore sia stata illogica o priva di fondamento. Attraverso il divieto di conversione si è voluto evitare l’eventualità che amministratori e politici ‘disinvolti’ possano “scambiare” posti di lavoro a fronte di preferenze elettorali, o di amicizie compiacenti.
Il tutto a discapito della qualità dei servizi, rimessi nelle mani del più ‘fidato’, anziché del più bravo.
Domenico Barboni
Pubblicato su “Vivereoggi” n. 8, ottobre 2000.